Editoriale

Conservatori al potere

La riforma costituzionale è tornata tra le priorità dell’attuale maggioranza. Si riparte da lì dove eravamo rimasti prima delle elezioni: dal progetto del governo, nonostante esso sia stato criticato da […]

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 3 giugno 2014

La riforma costituzionale è tornata tra le priorità dell’attuale maggioranza. Si riparte da lì dove eravamo rimasti prima delle elezioni: dal progetto del governo, nonostante esso sia stato criticato da quasi tutti i senatori della commissione affari costituzionali, malgrado l’approvazione di un opposto ordine del giorno che dovrebbe impegnare in senso contrario la stessa commissione. È allora opportuno anzitutto ricordare ciò che sembra si voglia invece pervicacemente dimenticare: le costituzioni non sono strumenti di governo.

Il loro scopo è quello di limitare i sovrani, assicurare i diritti, dividere il potere. Una costituzione strumentum regni non è una costituzione moderna: «Non si ha costituzione se essa non fissa la separazione dei poteri e non assicura la garanzia dei diritti» è scritto nei testi fondativi il costituzionalismo moderno, è scritto nell’articolo 16 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Ed è semplicemente questo che sosteniamo quando affermiamo che la costituzione non è nella disponibilità di nessuna maggioranza politica. Non è nella disponibilità neppure dei governi amici o ritenuti tali.
Le costituzioni possono essere cambiate, non c’è dubbio. Ma le modalità del loro cambiamento sono quelle fissate dalla carta costituzionale stessa. Stabilite in costituzione proprio per evitare che siano i governi, i poteri di volta in volta dominati, le maggioranze momentanee, i soli rapporti di forza a definire ciò che tiene unita un’intera società, a decidere sulla vita e sui diritti di tutti i consociati, sul modo di organizzare i poteri.

Da noi le regole del cambiamento sono fissate nell’articolo 138. Il più citato tra quelli della nostra costituzione, ma mai sino in fondo compreso. Pensare che si sia solo previsto un percorso più accidentato (le maggioranze più alte, la doppia lettura di camera e senato, magari anche il referendum che qualche minoranza ostinata può richiedere) vuol dire non comprendere la sostanza dell’art. 138, che non rappresenta semplicemente un ostacolo al cambiamento. Non è una forza che frena (katechon). È una disposizione che, in caso, si oppone all’improvvisazione, che invita a dare un senso non banale, non contingente alla modifica dei principi che si pongono alla base del vivere civile.

Ed è appunto la complessità del cambiamento che mi sembra sfugga. Alla base dei testi di riforma non vedo un’idea di costituzione adeguata ai tempi complessi che viviamo. Proposte sostenute dall’esigenze di dare risposte politiche immediate all’indignazione, ma prive di ogni reale capacità di cambiamento profondo. Sono testi che oscillano pericolosamente, passando attraverso parole d’ordine d’effetto, ma vuote.

Un «senato dei sindaci», ma che è invece composto in modo assai bizzarro: da sindaci, da governatori, da rappresentanti delle regioni, da nominati del presidente delle Repubblica. Senza nessuna scelta di un modello coerente tra i tanti disponibili. Un senato che non può essere in grado di affermarsi neppure come organo rappresentativo delle regioni, privato – come si vuole sia il nuovo senato – di ogni potere effettivo nelle stesse materie di competenza regionale: è solo uno slogan il «senato dei sindaci» ed è solo una suggestione lontana dalla realtà quella che si richiama ai modelli federali come in Germania o negli Stati uniti. (…)

In Italia avremo un gran bisogno di cambiamento. Un cambio di passo rispetto al passato. Ma temo che nessun cambiamento avremo sin tanto che continueremmo a giocare con le parole, senza mai soffermarci a riflettere sul senso reale delle cose.
A proposito di parole usate a sproposito. L’accusa che ci viene spesso rivolta è quella di essere conservatori e di ostacolare il cambiamento. Parole prive di senso, pronunciate senza la consapevolezza della storia. Parole che potrebbero essere facilmente ribaltate.
Se infatti c’è un significato complessivo che può trarsi dalle riforme costituzionali, e ancor più da quella elettorale, è che esse si pongono in stretta continuità con il ventennio che abbiamo alle spalle e che ora si vuole meglio «conservare», definitivamente istituzionalizzare, iscrivendo i suoi principi addirittura nel testo della costituzione.

Non è solo una battuta provocatoria, se è vero – come a me sembra indiscutibile – che la stagione che abbiamo attraversato, che ci ha condotto sull’orlo del baratro economico, finanziario, culturale, politico, è stata caratterizzata da una progressiva verticalizzazione del sistema politico, da una concentrazione dei poteri nelle mani di pochi, nella progressiva esautorazione del parlamento, nella trasformazione dei partiti di massa in partiti personali, dalla graduale chiusura autoreferenziale del ceto politico, nella progressiva e sempre più accentuata distanza dei poteri governanti dal corpo elettorale. Un corpo elettorale prima abbandonato a se stesso e che poi ha finito per abbandonare la politica a se stessa.
Da tempo si tenta inoltre di sublimare l’assenza di un tessuto democratico diffuso, con la personalizzazione delle leadership. Non più partiti che definiscono indirizzi politici generali, bensì capi cui delegare il cambiamento, con i quali ci si può solo identificare, ma non si possono certo contestare.
Non è dunque un’improvvisa svolta autoritaria quella che denunciamo, bensì una progressiva caduta verso un particolare modello di democrazia. Quel tipo di democrazia che noi poveri costituzionalisti chiamiamo «democrazia d’investitura» ovvero «identitaria». Un modello in verità molto distante da quello disegnato in costituzione. Nella sua prima parte. In quella parte che nessuno dice di voler cambiare, proprio perché tutti ancora – a parole almeno – dicono che definisce i principi democratici ancora validi, entro cui tutti dovremmo continuare a riconoscerci.

Ma allora, se vogliamo prendere sul serio queste dichiarazioni diffuse, dovremmo pretendere un diverso e più radicale cambiamento. Dovremmo esigere una vera rottura di continuità con il recente passato per ripensare quel modello di democrazia che sostiene l’impianto della nostra costituzione e che oggi è in sofferenza. Non la chiusura degli spazi di democrazia e partecipazione bensì l’affermazione delle regole del pluralismo sociale e politico.
Qualcuno vuole realmente cambiare lo stato di cose presenti? Si introducano nuove forme di partecipazione che non si limitino alle spettacolari – ma assolutamente prive di effetti – consultazioni on line dei cittadini: non basta l’ apertura di un indirizzo mail fantasiosamente intitolato alla rivoluzione di palazzo Chigi (ad una «rivoluzione dall’alto» dunque) per assicurare il coinvolgimento nelle decisioni politiche.

Si pensi con più fondatezza a modificare i regolamenti parlamentari per imporre la discussione dei disegni di legge popolare, ad esempio.
Si valorizzi la cittadinanza attiva, l’Italia che ancora crede che sia utile scendere in piazza, manifestare per le proprie idee e difendere i territori dalla deturpazione delle grandi opere inutili. Le istituzioni del pluralismo sono quelle che si fanno carico del disagio e che hanno la forza di cambiare opinione, anche a seguito del diffuso dissenso sociale. Cambiare idea anche per prevenire il dilagare di ogni violenza, che rappresenterebbe la morte del confronto democratico e civile.
Non si vuole più la concertazione perché ostacola la decisione, all’inconcludenza dei «tavoli» delle trattative tra le parti sociali si vuole sostituire la velocità dell’intervento risolutivo. Ma delle regole per garantire il controllo democratico dovremo pur indicarle. La partecipazione rallenta è vero, ma la velocità senza limiti porta di sicuro fuori strada, fuori dalla strada della democrazia partecipativa.
Al governo spetta la tutela di ciò che è comune, ma non può pensare di svolgere questo compito senza i diretti interessati. E allora, quando si tratta di garantire i beni essenziali della vita, i diritti fondamentali dei cittadini, dall’acqua alla cultura, dall’ambiente all’istruzione, soprattutto in una fase di ristrettezze economiche, perché non avere un po’ più di fantasia e permettere, ad esempio, la gestione dei beni comuni agli stessi cittadini. Applicando principi partecipativi che in costituzione sono stati introdotti, ma che non hanno trovato ancora una applicazione generalizzata.

Invertire la rotta vuol anche dire non continuare a sbarrare la strada ai nuovi competitori politici: clausole di sbarramento, premi, torsioni maggioritarie sono tutti strumenti finalizzati a favorire lo scopo legittimo della governabilità, ma è giunto il tempo di dire che oltre alla governabilità anche i pluralismo delle forze politiche è un valore costituzionale. E un parlamento ricco di diverse esperienze, che ricominci a rappresentare non più solo i vertici dei partiti dei leader, ma anche una società frammentata e divisa, parlamentari scelti dagli elettori e non inseriti nelle liste grazie ad una selezione operata dall’alto, rappresenta il presupposto indispensabile per fare uscire il nostro sistema parlamentare dal coma profondo cui è entrato.

Il testo è un estratto dell’intervento letto ieri a Modena nel corso della manifestazione «Per un’Italia libera e onesta».

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