L’ultima delle red list stilate dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), che aggiorna sulle specie animali e vegetali che potrebbero scomparire, ha collocato l’elefante africano sull’ultimo gradino della scala di rischio prima dell’estinzione in natura e dell’estinzione assoluta. L’altro grande mammifero africano, il rinoceronte, è in serio pericolo. Per entrambe le specie, gli ultimi decenni sono stati una strage, causata soprattutto dalle attività di bracconaggio che hanno raggiunto livelli più elevati mai visti. Il Sud Africa è il paese con più rinoceronti al mondo: ospita l’83% dei rinoceronti africani e il 73% di tutti quelli che abitano in natura; nel 2012 l’uccisione illegale dei rinoceronti toccò la cifra record di 668 animali. Questa crisi ha fatto da motore alla fondazione delle Black Mambas, la prima unità antibracconaggio del Sud Africa tutta al femminile, attiva nel grande Parco Kruger. Tuttavia, ci può essere qualcosa di sbagliato nella protezione di elefanti, rinoceronti, ed altri animali in via d’estinzione? E’ la riflessione da cui parte il documentario Black Mambas di Lena Karbe, presentato in anteprima nazionale nell’ambito della XV edizione del Pordenone Docs Fest e vincitore del premio Crédit Agricole FriulAdria-Green Documentary Award. Attraverso le storie personali delle donne che hanno deciso di cambiare il loro destino, Black Mambas racconta una storia più grande: la protezione degli animali attraverso l’impatto che questa ha su uomini e donne, in particolare le ranger e i bracconieri che, ironicamente, provengono dallo stesso contesto sociale ed economico; mostra come una causa moralmente giusta come la difesa della natura possa arrivare a emarginare la popolazione locale, negando loro l’accesso alle risorse cui prima attingevano. E come esista ancora la figura del grande cacciatore bianco, di animali, ma anche di uomini.

Come sei venuta a conoscenza delle «Black Mambas» e perché hai deciso di realizzare un documentario?

Ho scoperto l’unità antibracconaggio delle Black Mambas grazie al mio interesse per la conservazione della natura. Mi stavo documentando sul Kruger National Park quando ho letto un dato di cui non sono più riuscita a dimenticarmi: circa 3 milioni di persone vivono al confine con il Kruger Park, e l’80-90% di loro è disoccupato. Queste comunità non hanno alcun legame con la protezione della natura e la vedono come una «faccenda da uomo bianco». Anche la maggior parte dei bracconieri, soprattutto di carne di animali selvatici, ovvero quelli che non cacciano specie di alto valore ma qualsiasi cosa da mangiare, provengono da queste comunità vicine, così come i rangers. Questi conflitti a più livelli, il modo in cui le ranger femminili proteggono la natura dalle persone delle loro stesse comunità, mentre loro stesse non hanno alcun legame personale con il parco, ad esempio, ha immediatamente suscitato il mio interesse.

Come sono nate le «Black Mamba»?

Le Black Mambas si sono solo apparentemente formate per proteggere i Big 5 (leoni, leopardi, rinoceronti, elefanti e bufali africani), i grandi animali selvatici del Parco Kruger . La Black Mambas Anti-Poaching Unit è il frutto dell’ingegno di Craig Spencer di Transfrontier Africa, un progetto di gestione della conservazione che ha trasformato l’emergenza bracconaggio del 2013 in un’opportunità per estendere i suoi personali obiettivi personali di educazione, turismo e sviluppo economico nell’ambito del business della conservazione.

Come si intrecciano le storie personali con i temi del documentario?

Le Black Mambas provengono dalle comunità vicine al parco, quindi sono i volti dei conflitti sociali e del contesto politico che sto descrivendo. La maggior parte di queste rangers donne non ha mai visto gli animali in natura prima di iniziare il proprio lavoro. E’ piuttosto difficile da immaginare, dato che queste donne vivono così vicino al parco, ma esemplifica molto bene quanto le comunità locali siano alienate dalla conservazione.

In che modo le protagoniste del documentario sollevano la questione del colonialismo e del razzismo?

Il parco stesso con la sua storia è un prodotto del colonialismo e del razzismo. Il Kruger Park è stato fondato con l’intento di unire i bianchi sudafricani (di origini olandesi e britanniche); le persone di colore sono state politicamente escluse dal parco e dalla conservazione. Con la formazione del parco, molte tribù locali sono state sfollate con la forza e i loro diritti di caccia sono stati revocati. Ancora oggi il motore della protezione della natura è rappresentato dal turismo, e le conseguenze del Covid-19 sul Kruger Park – la mancanza di turisti dall’estero – hanno mostrato quanto sia fragile un tale sistema economico. L’economia della conservazione si è rivolta specificamente ai turisti bianchi particolarmente ricchi provenienti dall’estero, poiché i prezzi dei lodge sono così alti da non essere accessibili alla popolazione locale. È tristemente ironico come l’attività delle Black Mambas sia mirata a sollevare una sorta di patriottismo ambientale in comunità poverissime che non beneficiano in alcun modo delle attività di conservazione.

Il documentario pone un tema delicato: il conflitto tra la necessità di proteggere la natura e l’esigenza di sopravvivenza della popolazione locale, per la quale la natura rappresenta una fonte di risorse. Si tratta di un conflitto insormontabile?

Sarebbe importante che in quell’area emergessero possibilità di lavoro legale e sufficientemente retribuito. La disoccupazione è estrema. Queste comunità quasi non hanno industrie, quindi si rivolgono al parco per lavoro (come ranger) o per cibo (come bracconieri). Non è realistico pensare che il Parco Kruger possa offrire lavoro a 3 milioni di abitanti locali, ma per quanto riguarda la conservazione, la popolazione locale deve trarre un qualche profitto finanziario dalla conservazione della natura se si vuole che la valorizzi e la protegga. E’ questa l’unica soluzione duratura a questo conflitto. Finché sono i bianchi a guadagnare i soldi dalla conservazione e la popolazione locale che ottiene solo una piccola percentuale dei profitti, quando nulla, la questione non si risolve.

Quanto è sentito il problema della conservazione della natura nelle popolazioni locali? Quali sono i principali ostacoli alla conservazione?

Gli elementi di post colonialismo che si ravvisano nella mentalità degli abitanti del posto, che non considerano la conservazione una faccenda che li riguardi, e nella formazione stessa del Parco, dove non sono benvenuti, rendono la protezione della natura una questione da cui la popolazione locale è alienata. Gioca un ruolo anche l’estrema corruzione che caratterizza queste aree: ne consegue che la conservazione non fornisce alcun vantaggio alla popolazione locale. Inoltre, è profondamente sbagliato continuare a finanziare la conservazione attraverso un turismo rivolto specificamente a clienti bianchi e ricchi, senza chiedersi perché una persona di colore e povera non veda un rinoceronte o un elefante nel nostro stesso modo.