Nonostante l’apparente pullulare di autocandidature, voci e spifferi, la partita per il congresso Pd si muove cauta, prudente, sospettosa. Dietro le tante ambizioni si nasconde la paura sul futuro del partito: l’autoanalisi pubblica di giovedì è apparsa contorta, mentre Conte si avvicina ancora nei sondaggi post voto e si lancia alla guida delle piazze pacifiste.

STEFANO BONACCINI è in campo e andrà fino in fondo, fino alle primarie di marzo, consapevole che questa è la sua grande occasione (forse l’ultima) per fare il grande salto dall’Emilia a Roma. Ma rispetto al 2020, quando aveva iniziato a scaldare i motori, il panorama è molto cambiato: l’idea di una sua scesa in campo come una rivincita renziana è archiviata, lui stesso non ha alcuna intenzione di essere etichettato come il candidato di Base riformista, la ridotta degli ex renziani guidata da Lorenzo Guerini e da un Luca Lotti escluso dalle liste ma non ancora fuori dai giochi. Ormai il nome Renzi non può essere più pronunciato in casa Pd, dopo la campagna sanguinosa condotta da lui e da Calenda contro i dem. E dunque la principale preoccupazione di Bonaccini è togliersi di mezzo l’eredità del rottamatore, quel 2013 in cui saltò con rapidità sul carro del fiorentino mollando Bersani. Per questo il governatore sta lavorando alacremente per costruire un fronte più vasto, una sorta di rivincita dei territori contro il partito romano.

MA L’ARRUOLAMENTO non sta dando i frutti sperati. Tradotto: Bonaccini non è ancora riuscito a fare massa critica intorno a sè. Tanto che persino Dario Nardella, sindaco di Firenze, medita di correre in proprio, mentre il pesarese Matteo Ricci sembra già in ritirata. Anche il bolognese Matteo Lepore non si schiera col “suo” governatore. Quelli che potrebbero davvero dare una mano sono il bergamasco Giorgio Gori, il barese Antonio Decaro e Beppe Sala, che però ha un profilo non iscrivibile nell’alveo del Pd. Il piatto piange anche sul fronte governatori: De Luca fa storia a sé, Emiliano è imprevedibile, solo il toscano Giani potrebbe fare asse col collega emiliano.

A BOLOGNA, AI PIANI alti del palazzo della Regione, i supporter di Bonaccini confidano che, alla fine, tutti rientreranno, a partire da Nardella, con cui i rapporti sono sempre stati buoni. «Ha un profilo troppo simile al nostro per fare una corsa contro di noi», si ragiona nella war room del governatore. Così vale per gli altri sindaci che ancora alzano il prezzo. «Staranno tutti con noi». Si lavora anche alla piattaforma della candidatura: nessuna paura a usare la parola «sinistra», rivendicazione del modello emiliano, welfare e coesione sociale, il patto per il lavoro siglato con imprese e sindacati che continua a dare frutti. Pragmatismo, sinistra di governo che non concede nulla alla radicalità. «Non è che gli operai tornano a votarci se ci mettiamo a inveire contro il capitalismo», uno dei ragionamenti. «Qui abbiamo fatto il rigassificatore senza troppe proteste o clamori, ascoltando anche gli ambientalisti». La speranza è che si unisca alla truppa anche la vice in Regione Elly Schlein, profilo movimentista, molto utile per coprire a sinistra Bonaccini in un ticket tutto emiliano. Lei tace, non ha ancora rinunciato a una corsa solitaria, sa di poter rappresentare una novità vera, ma non è radicata nel partito E, soprattutto, la sinistra interna non la ama. La considera troppo radical chic, poco adatta a una svolta laburista.

LA SINISTRA INTERNA farà di tutto per sbarrare la strada a Bonaccini, considerato troppo riformista, nel senso del Pd degli ultimi dieci anni che strizzava l’occhio ai grandi manager e faceva crescere i 5S e le destre nelle periferie. Peppe Provenzano, il giovane vice di Letta, ha deciso di non candidarsi. Andrea Orlando, che vecchio non è, ci sta pensando seriamente. Nell’analisi degli ultimi anni è uno dei più a sinistra, giovedì in direzione ha usato volutamente «parole antiche» contro «l’attuale fase di sviluppo del capitalismo». E ora si sta smarcando anche sulla guerra. Paga il fatto di essere stato al governo quasi sempre dal 2013, e di non essere un trascinatore. E di aver già corso nel 2017 contro Renzi. E tuttavia lui ha il chiaro obiettivo di imprimere una svolta a sinistra al Pd, e togliere così la bandiera degli ultimi a Giuseppe Conte (ieri erano entrambi in piazza con la Cgil). A Genova, dove il partito guidato dal fedelissimo Simone D’Angelo, la svolta a sinistra ha già dato frutti nelle urne del 25 settembre.

ORLANDO NON VORREBBE che la discussione partisse dai nomi, auspica che da qui a gennaio si faccia una vera costituente, aperta al «Pd fuori dal Pd», sindacati, associazioni, volontariato. Il sogno sarebbe quello di riunire una maggioranza simile a quella che nel 2019 portò al trionfo di Zingaretti: non solo la sinistra, ma anche i cattolici democratici che fanno riferimento a Dario Franceschini. Il ministro della Cultura come sempre, non si sbilancia. Ma è chiaro che, ad oggi, non ha un patto con Bonaccini. Anzi, sta studiando come costruire un’alternativa al modenese. I suoi detrattori dicono che «mai si schiererà con il candidato più debole». I pontieri tra lui e Orlando sono già al lavoro: non è escluso che, a sorpresa, venga fuori un altro nome condiviso da contrapporre a Bonaccini. Il tempo c’è. Per ora l’ipotesi di un duello Bonaccini-Orlando. che furono ragazzi insieme nella Fgci degli anni Ottanta, è più che una suggestione.