Se non si va alle radici del problema – ovvero non si ridiscute il modello – l’impazzimento è assicurato. «Avendo abdicato all’idea di governare i flussi di traffico, la prospettiva è quella di una congestione dell’arco alpino». È la fotografia di Angelo Tartaglia, già professore del Politecnico di Torino, membro dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), che da anni è impegnato nell’applicazione della logica dei sistemi ai problemi trasportistici con riferimento particolare all’Alta velocità Torino-Lione, per cui è consulente dell’Unione Montana Bassa Valle di Susa.

Professor Tartaglia, i treni che tra Italia e Francia utilizzavano il Frejus non circoleranno fino all’estate del 2024. Quale scenario ci aspetta?

In una situazione come questa, se si tappa una linea – ferroviaria e in parte autostradale – si aumenta il volume di traffico sulle strade peggiorando le condizioni sull’arco alpino con impatti ambientali seri. I flussi, però, non sono a priori ingovernabili, come invece si pensa poiché lasciati gestire al mercato.

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Prima di entrare nel merito, vediamo cosa ci resta temporaneamente. Quali sono le linee ferroviarie rimaste tra Francia e Italia?

Se per i passeggeri ci sono l’opzione via Svizzera da Milano e quella via Ventimiglia, con una probabile ripresa del traffico aereo, per le merci resta solo la via litoranea da Ventimiglia. Assisteremo a un aumento del flusso dei camion con una congestione dei volumi di traffico, viste anche le criticità dei valichi alpini Brennero, Monte Bianco e Gottardo.

Ci sarà un aumento dell’inquinamento atmosferico in una zona come il Nord Italia già provata. In quali dimensioni?

Se il flusso ferroviario merci, che è una parte minoritaria del totale anche per assodate scelte politiche (3-4 milioni di tonnellate all’anno sulla linea storica del Frejus), si trasferirà su strada, avremo un peggioramento del 10% rispetto alla situazione di partenza. Non così drastico perché la maggior parte delle merci viaggia già su gomma. La tangenziale di Torino, in una delle aree più inquinate d’Europa, è intasata a prescindere. È la fonte maggiore di inquinanti e gas serra. La si vorrebbe aumentare dal punto di vista infrastrutturale, ma così si aggrava il problema. Non esistono formule miracolose se non ridiscute il modello economico e dei trasporti.

Nel tour l’Italia del Sì, il ministro Salvini è tornato a parlare di Tav. Perché non è la panacea tanto millantata?

Non lo è ed è emblematica la sua posizione. Risponde alla logica degli affari: faccio cantieri e chi realizza opere ci guadagna, se l’opera serve o meno è un aspetto che riguarda altri. Così per il super tunnel della Torino-Lione come per il ponte sullo Stretto. Si nega l’emergenza climatica globale. Rispetto alle prospettive europee di riduzione delle emissioni è tutto illogico visto che nella fase di cantiere Tav sono previste da Telt circa 10 milioni di tonnellate di Co2 (una città come Torino ne emette in atmosfera 3 milioni l’anno). Non si trasferiranno, poi, come d’incanto le merci da gomma a rotaia perché la competizione è basata in termini di mercato. Il governo dovrebbe smetterla di dare incentivi al trasporto stradale: tariffe agevolate sui carburanti e al casello. Usiamo per le merci le nostre linee interne ad alta velocità che sono state progettate come alta capacità, ma dove merci non ne passano.

Come si governano i flussi?

Chiedendosi quali produzioni è giusto far arrivare a grande distanza. La logica del chilometro zero minimizza gli spostamenti non li annulla. Unico criterio che ora si adotta è quello del prezzo, che non include però i veri costi, come l’impatto ambientale, altissimo visto il susseguirsi di eventi estremi. Non si tratta di chiudere le frontiere ma di tenere conto dei costi reali.