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Conflitti di famiglia

Conflitti di famiglia

Festival Bellaria Benedetta Valabrega parla di "Noi" il suo saggio al Centro Sperimentale di Palermo e suo film d'esordio presentato al festival

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 28 settembre 2019

“Avevo qualcosa di pressante da raccontare nella vita: il rapporto conflittuale con le mie sorelle. Era successo al nonno e a suo fratello, a nostro padre e allo zio, e ancora nel tracciato famigliare: la nostra preoccupazione era di arrivare a un punto in cui avremmo potuto smettere di parlarci”.

Da qui, dal ripetersi inesorabile di contrasti tra fratelli, in certi casi magnetico quanto lo è la telepatia delle due sorelle in La vita invisibile di Eurídice Gusmão, si è mossa Benedetta Valabrega a comporre Noi, il suo lavoro finale al Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo, nonché il suo esordio, in questi giorni nella sezione Bei Young al Bellaria Film Festival (26- 29 settembre).

Ma il film è anche in un balcone romano tra le fronde, da cui si affacciarono per l’ultima volta Leone Italo Valabrega e Anita Di Capua – bisnonni della regista, deportati e assassinati ad Auschwitz – a guardare i figli Ugo e Bruno (suo nonno), spinti a fuggire per salvarsi dai tedeschi all’indomani dell’armistizio; è nell’abitare lo sguardo dal tram dei due ragazzi verso quel balcone, da dove ora – guardando in macchina – i genitori dell’autrice dialogano con lei in voce over; è in uno zaino dei fuggiaschi, in quello che suo padre porta con sé nelle escursioni da “forzato della montagna”, in una valigia della discordia nell’incipit con una delle due sorelle, o nei ricordi della nonna, nelle lettere di famiglia ad alta voce, nelle domande senza risposta, nel domino delle sofferenze dei figli costretti negli anni a lasciare la casa per gli Stati uniti, nelle continue discussioni… Tra cordone ombelicale e strada personale, tra giudizio e accettazione. O nel viaggio a ripercorrere al contrario il tragitto del nonno e del prozio oltre le linee naziste. Il tutto sul filo di un’autoironia che ci salva dall’insostenibile pesantezza di quel “noi” familiare in cui ognuno/a in modo diverso può riconoscersi.

Ha detto Abraham Yehoshua – essenziale per questo film – in un’intervista a Wlodek Goldkorn su “L’Espresso”. “Una memoria troppo pesante e troppo carica di ricordi porta alla paralisi e a compiere azioni errate”.

Raccontaci la genesi del documentario.

Nasce come esito della scuola di Cinema frequentata a Palermo e dal sostegno del mio professore, Stefano Savona. Sentivo di voler trattare il rapporto con le mie sorelle. Al tempo stesso, parlandone non con dei parenti, è emerso come nella mia famiglia i rapporti tra fratelli fossero conflittuali da generazioni. Oltre a questo ci sono stati tre romanzi che hanno contribuito ad allargare il raggio sul passato: Le correzioni di Franzen, Un divorzio tardivo di Yehoshua e Lessico famigliare di Ginzburg.

Un altro elemento presente nel film riguarda un certo agonismo ricorrente nella mia famiglia, una sorta di sfida, e il gesto di allontanare i figli – nel caso dei bisnonni dovuto alla necessità di salvarli – che si era ripetuto coi miei nonni e con mio padre, con lo spingerci ad andare negli Stati uniti.

Quale è stato il rapporto tra scrittura e improvvisazione e come sei riuscita a filmare i conflitti?

Per quanto ci fossero dei temi scritti, le riprese erano più che mai aperte. Di solito ero io che andavo a trovare mia sorella portandole lettere famigliari, oppure dialogavo con mia nonna o con mia madre e mia sorella. Conflitti ne avvengono tot, parecchi. All’inizio non ero proprio in grado di filmarli: troppo coinvolta emotivamente. A un certo punto ero in macchina con le mie sorelle e avevo filmato per un’ora senza che succedesse niente. Si parlava di futuro lavoro amore, ma discussioni zero. Allora spengo la telecamera e la metto nello zaino. E lì cominciano a litigare… In quel momento è arrivata la vera comprensione del film che potevo fare. Se era difficile tenere la camera accesa e non partecipare al conflitto, era necessario farlo per raccontare davvero la mia famiglia. Anche perché non volendo in alcun modo sfruttare la situazione per farne qualcosa di cattivo – il mio intento era arrivare a un esito bello e onesto – mi sono sentita legittimata a farlo.

Come hanno preso i tuoi familiari l’idea del film? E tu rispetto al lavorare con loro, in un contesto non comune per il documentario, di dinamiche di relazione già esistenti e ataviche?

Per entrare con una telecamera in famiglia all’inizio ho attinto alla falsa pista del passato: lettere di mio nonno, che poi pian piano arrivava alle lettere che mio padre aveva scritto a mia madre dagli Stati uniti, tutto un materiale più antico che risuonava nel presente, nei vivi, per dire loro che era un filo legato a una storia più ampia. Non so come l’abbiano presa durante, non ho mai apertamente detto cosa avevo intenzione di fare, anche perché neanch’io lo sapevo davvero. Ho cominciato a capire la strada del film solo quando sono arrivata a Palermo con il materiale da montare. Quando l’ho mostrato ai miei familiari, anche se avevo avuto già riscontri positivi da altri, ero molto preoccupata anche perché avevo raccontato cose nostre molto personali. Ma quando l’hanno visto hanno capito il valore che il film poteva avere per noi, anche se, passato un po’ di tempo dalla fine del film, ho fatto altre riprese e non è cambiato niente, i conflitti non sono diminuiti, forse ci vuole ben più di questo…

Nel film ci sono due oggetti topici: la valigia della discussione iniziale con tua sorella e lo zaino della fuga di tuo nonno e suo fratello, ma anche delle escursioni di tuo padre. Si parla di cosa portare in un viaggio, di distribuzione dei pesi, di pesi non propri…

Cosa portarsi dietro, il fardello che ci si carica sulle spalle, sono temi che si ricollegano a quella che nel film è chiamata “ansia da prestazione”: dover dimostrare che si è capaci, che si può andare da soli via di casa, fino in America, che ci si può arrampicare sulle montagne. Tutte cose che nella ricerca con i membri della famiglia possono forse essere associate a una maniera di elaborare il trauma. Sono pesi di cui ci si può in parte liberare anche se a volte si è particolarmente affezionati ad averli…

A proposito di zaini e pesi insostenibili, tuo padre si ricollega al suo sentire di bambino e racconta come la sua rabbia e il bisogno di far pagare la deportazione dei suoi nonni avrebbero potuto farlo diventare un terrorista. Tua sorella lamenta che da piccola le facevano leggere solo libri sulla Shoah..

Il film è stato visto da alcuni discendenti di deportati, amici di amici a Roma. Io ho un ricordo che adesso sta un po’ svanendo: quando ero piccola guardavo da lontano la casa dei bisnonni. Rappresentava qualcosa di enorme, in cui in cui in qualche modo mi sentivo dentro.

Dicevi che il film non ha cambiato i rapporti, ma durante il viaggio finale compare la figura del cane che tuo padre porta con sé, un personaggio che mi sembra essenziale..

È stato importante che a un certo punto sia apparso il cane nella sua vita. Per dimostrare che sa essere anche in un altro modo, più leggero, più tenero. Adesso c’è qualcuno con cui può essere meno severo di come è stato con le figlie.

Una cifra alleviante del film è quella dell’ironia.

Veniva fuori in particolar modo nei dialoghi con mio padre e mia sorella Federica. La telecamera non li inibiva e io ho pensato che poteva essere un punto di forza trattare una storia drammatica come questa anche in chiave ironica. Cosa che ho cercato di enfatizzare ancor più col montaggio delle voci..

La tua voce over che ripete che palle, ma chi me l’ha fatto fare..

Il viaggio non è affatto andato come pensavo mi servisse. Volevo raccontare una cosa legata al nonno, provare a ricucire una ferita, cercare momenti cdi commozione finale. Conoscendo mio pare mia sorella e me (è l’unico momento del film dove siamo tutti insieme), credevo di arrivare a qualcosa di più intenso. Invece è stato un trauma totale perché abbiamo litigato dall’inizio alla fine e quasi non siamo arrivati a Roma insieme. Ero arrabbiata, poi ho capito che tutto questo poteva aiutarmi a concludere la storia in modo più lieve.

Altro nodo cruciale è quello della mappa, della strada di ognuno. La regia era anche un modo per agire la relazione con tuo padre e diventare una guida autorevole, e quale è stato in questo senso il tuo rapporto con la camera a mano?

I miei genitori sono entrambi medici. Di noi tre figlie solo mia sorella ha seguito questa strada. Federica l’aveva scelta in un primo tempo ma poi si è rivolta verso la fotografia.

Nel dialogo con mio padre accenno al suo essere contrario al mio ritorno dagli Stati uniti per fare la scuola di cinema, centrale nel nostro dissidio. Rispetto a questo il film è stato fondamentale. Se i conflitti tra tutti non sono diminuiti, cruciale che lui si sia affidato, e reso disponibile a ripensare il suo percorso. Quanto alla macchina a mano, mai utilizzato quella fissa. È un modo che abbiamo in molti di muoverci in modo leggero nello spazio, di capire la giusta distanza, e di non essere “presi così sul serio” dagli altri. Avevo solo una piccola camera, un mixerino del suono e un microfono: non sembravamo una troupe di un film, no?

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