Concettualità e rosso Ingres: Giuseppe Gallo
Artisti in atelier Nel suo nuovo studio di Roma a San Lorenzo, un incontro con Giuseppe Gallo: si schiera con il fare, la lentezza, le pratiche antiche (qui cita Clyfford Still). E presenta i lavori recenti, «Filosofi guerrieri» e grandi encausti
Artisti in atelier Nel suo nuovo studio di Roma a San Lorenzo, un incontro con Giuseppe Gallo: si schiera con il fare, la lentezza, le pratiche antiche (qui cita Clyfford Still). E presenta i lavori recenti, «Filosofi guerrieri» e grandi encausti
Giuseppe Gallo è reduce abbastanza recente da un metafisico intervento ambientale nella nativa Cosenza (è nato a Rogliano, il 16 marzo 1954): i Filosofi guerrieri, installati in piazza Bilotti, al principio del corso Mazzini che a partire dal 2004 è venuto animandosi, grazie alla donazione del mecenate Carlo Bilotti, di opere di maestri del Novecento italiano: Manzù, Consagra, Rotella… Monumentali, le rugginose silhouttes in corten dei dodici Filosofi incidono, fra anonimi edifici moderni, la loro euritmica presenza mitologica, oscillante fra Apollo e Dioniso, il capo reclinato nella concentrazione del pensiero e il piede torto che accenna la danza – figura-sigla nel catalogo di Gallo, comparsa per la prima volta, come puro contorno su fondo nero, in una tela del 1983, Incantato.
A Cosenza, piazza Bilotti
Nel nuovo, vasto e affaccendato studio di via Tiburtina nel quartiere San Lorenzo – alle pareti le grandi, formicolanti composizioni, vagamente «secessioniste», su fondo a encausto giallo, della sua produzione ultima –, Gallo mostra la maquette del progetto: «Questi Filosofi guerrieri, dodici, erano nati per una mostra a Foligno, nel 2011: a struttura circolare. Poi, per una mostra al Castello Svevo di Cosenza, sono stato costretto a separarli, e mi sono meravigliato, appoggiandoli alla parete, come ciascuno di essi acquistasse un’identità propria. Ma diverso è stato utilizzarli, adesso, su scala urbana. Sono nati problemi tecnici, per cui ho dovuto riassemblarli in gruppi – di cinque, tre, due, uno –, e la necessità di sostenerli mi ha obbligato ad aggiungere alcune figure, ispirate alla tradizione della città: il toro sibarita, il lupo della Sila…». Chiedo a Gallo cosa comporta, per lui, la costrizione posta da fattori esterni: «È benvenuta, è una forma di piacere, perché si rinuncia alla propria vanità di ‘creatore’. Può essere una lezione soprattutto per i giovani artisti, in una stagione segnata da una certa rigidità, dall’idea dell’intoccabilità dell’opera». E nel tuo percorso è un raggiungimento? «Un raggiungimento e anche una sorpresa. Io, del resto, ho sempre avuto un rapporto piuttosto libero con i miei lavori: finché non escono da studio, sono capace di tornarci su, di modificarli continuamente. (Infatti, sta dando indicazioni all’aiutante Daniel per modificare il colore di alcune ‘tessere’ di un encausto, ottenendo più ariosità nel disegno complessivo). Perché li guardo, li riguardo… credo molto in questo rapporto fisico con il lavoro, e soprattutto credo che non siamo più negli anni settanta, quando l’artista si creava una cifra, e su questo andava sicuro, in modo quasi orientale. Crei un codice, un linguaggio, e lo vivi: non è più così, oggi è piuttosto un momento di semina, per noi stessi e per i giovani».
In piazza Bilotti l’effetto può sembrare metafisico, giusto? «Alle spalle c’è il naturalismo metafisico dei calabresi Campanella e Telesio, e di Giordano Bruno: come generica visione delle cose, non troppo documentata, perché io sono ignorante come può essere un sano pittore. La piazza è contornata di palazzi anni settanta-ottanta non belli, però il lastricato, rettangolare, di pietra bianca, è bellissimo, con i due estremi che si alzano per ospitare, da una parte un museo, dall’altra un garage. Le grandi sculture hanno bisogno del sole, perché con le ombre ‘scrivono’ sul pavimento. Il gruppo di cinque, per esempio, è legato circolarmente, alla sommità, da un supporto con i nomi delle etnie calabresi: bruzi, sibariti, albanesi, che il sole proietta a terra. Fra le sculture realizzate appositamente c’è il toro sibarita, per me una vera scoperta: di fronte all’uomo e alla cultura gira la testa, al contrario del toro spagnolo, che attacca frontalmente. La parte animale, dunque, viene considerata intelligente, un argomento a me molto caro, come dimostra la figura del Filosofo che, non in questo, ma in altri casi ho rappresentato con il piede caprino: l’uomo deve mantenere la sua parte animalesca per diventare, non un professore universario, nemmeno un sapiente, ma un ‘grand’uomo’, con i dubbi di sempre». Dinanzi al caos… «Il caos è sempre stato una mia dominante: sia il mio caos interno, sia quello linguistico. Non dirò che il caos l’ho domato, piuttosto ne ho approfittato. Lungo gli anni, a caos è subentrato altro caos, ma quello di prima mi è sempre servito». E che caratteri ha questo caos? «Quando non ho delle immagini, figurative o astratte, chiare da realizzare, vivo di frammenti, accumulo frammenti, che poi vanno a confluire in un altro tipo di opere, come le Foglie, che presentai a una mostra del Macro: le foglie erano disposte secondo il sistema numerologico di Fibonacci. Si tratta di opere fatte in attesa che maturino altre immagini, altri significati». Lavorare per serie cosa significa? «Fare un solo quadro e basta, come facevo prima, in fin dei conti è un atto di tracotanza. La serie si deposita di più, e in ogni caso non è possibile, proprio tecnicamente, fare quadri uguali, così magari da un numero della serie vengono fuori altri suggerimenti, e dalla serie ne esci”.
Può tornare in mente, dinanzi all’«artigiano», al certosino Gallo, il Piccolo discorso ai pittori incisori di Paul Valéry: «vi è una sete del tutto particolare, che né il piacere delle virtù, né il possesso felice aboliscono o fanno cessare»: è «come una seconda natura», il piacere del fare. «Ho una ritualità del fare, che implica la lentezza: mi interessa quasi più che l’atto finale». Un’idea processuale. «Un’idea processuale che la mia generazione, in ogni caso figlia di nn, ha però assorbito da quella precedente, l’arte povera degli anni settanta. Tutti abbiamo – comprendo qui i miei antichi compagni di strada, gli artisti di San Lorenzo – una nascita molto concettuale, il nostro lavoro andrebbe letto di più in questo senso. Ai miei esordi fui molto influenzato dal Giovane che guarda Lorenzo Lotto di Giulio Paolini». E la tecnica? E i materiali? «Ho l’idea presuntuosa di fare dei lavori che reggano tecnicamente nel tempo. Proprio, anche qui, come idea concettuale, da opporre all’effimero di certa arte contemporanea, opere che non durano neanche la vita di un uomo. I materiali che uso sono terribilmente provocatori, superclassici: la cera dell’encausto, il bronzo… Oppure la mia vera ossessione per certi colori, come i rossi alla Ingres, o per tinte che oggi si sono perse, anche a causa della tossicità da piombo, per esempio un giallo di Napoli medio che io ho usato perché lo ereditavo da mio padre. Anticamente il verniciare le cose serviva sia a conservarle sia a ridare vita ai colori. Anche Clyfford Still, si dice, tornava a verniciare i suoi quadri ogni tre-quattro anni: nell’America di quel periodo c’era questa volontà di competere con gli Antichi. Non ho mai cercato una modernità nei materiali, l’ho cercata piuttosto nell’accoppiamento dei lavori, quasi per assurdo, perché poi, alla fine, esiste l’immagine, secca, da sola».
Confondere le acque
È come se tu, artista quanto mai icastico, che quasi trasforma in ‘firma’ le proprie opere, volessi contraddirti… «Confondere le acque, non diventare prigioniero di me stesso. In questa irrequietezza mi hanno aiutato, più degli intellettuali, i mercanti: Gian Enzo Sperone, soprattutto, meno interessato all’economia e più a un sogno del lavoro. Ogni volta che veniva a studio, vedeva un diverso quadro, due metri per due. Un giorno mi chiese di vederli tutti assieme e io gli risposi che non era possibile. Perché, li hai venduti? In realtà erano tutti la stessa tela, dove avevo dipinto immagini completamente diverse. Lui rimase entusiasta e il giorno dopo mi chiamò, mi diede un mucchio di soldi perché lavorassi per lui». Dipingere quadri diversi su una stessa tela… «Io vengo da un padre restauratore e quando trovavamo un’immagine sotto, in un quadro o in un affresco, era di un erotismo impressionante. E qui torna il motivo concettuale: i quadri non devono raccontare quello che esiste, sono anime vaganti, non riesci a possederli quando li guardi».
Riandiamo ai Filosofi guerrieri: da sempre la tua personale mitologia vuole ridare statuto e presenza espressiva a funzioni ancestrali. «Sì, la nudità, la semplicità di alcune figure-simbolo che hanno riguardato tutte le tradizioni etniche e religiose, nessuna esclusa: il bastone, la sedia, l’accetta, la pietra, la maschera, la foglia. Lo sento ancora più necessario oggi, in cui la complessità dovrebbe portarci chissà dove. Mi piacerebbe ‘ridurre’ ancora di più, avere una mente alla Mondrian, che non ho, perseguire la calma, la purezza dei tre colori fondamentali organizzati geometricamente. Ho usato spesso la sezione aurea, ed è difficile: tutto il lavoro sulle foglie, sui bastoni, sulle pietre alla fine è sfociato nei rettangoli e basta, che diventano quasi paesaggi: però sono rettangoli perfettamente aurei».
È uscito da poco, per una serie della casa editrice Pondus di Milano, un piccolo libro di disegni acquerellati (testo di Massimo Kauffmann): breve teoria di apparizioni, fra il biomorfico, il ginnico e l’atmosferico, tratte via dal caos suddetto, dove l’io di Gallo, perplesso, divertito, angustiato, cerca risposte in un ordine cosmico di cui non riesce a possedere le chiavi. Dunque, il disegno. «Nel mio lavoro non è mai preparatorio. Risponde all’esigenza di avere un accumulo di appunti, e una libertà visiva, frammentaria, di sintesi. A volte è più elaborato di un quadro, ma in certi casi aiuta a premiare pensieri veloci, che è facile dimenticare» (cade l’occhio su un azzurro giocoliere, pensoso, sopra il capo una teoria di cubetti lanciati, dalle facce diversamente colorate).
Il 15 novembre scorso, in un’asta Christie’s di New York, un’opera di Giuseppe Gallo Untitled (adesso da lui ribattezzata «Amici al pronto soccorso»), ha ottenuto il risultato, inaspettato, di 367.500 dollari. Dipinta nel 2011, fa parte di una serie di grandi encausti di cui si possono vedere nello studio alcuni esemplari. Uno in particolare, una specie di esplosione colorata di frammenti astratti e figurativi (fra questi ultimi, alcune delle sagome-tipo del pantheon dell’artista, come la mano «prestigiatoria»), che nello spazializzarsi verso l’alto attraverso linee di forza perfettamente calcolate si rapprende in sublime conglomerato decorativo. Decorazione: Giuseppe Gallo non la prende bene. Tipica reazione generazionale. Aiuto! Non mi riesce di fargli capire che non pensavo all’arredamento del salotto, ma al fregio Stoclet, o ancora meglio all’Orto con i polli, di Gustav Klimt. E risponde: «Allora sai che ti dico? Me lo metterei a casa. Me lo guarderei, me lo riguarderei… mi fa piacere». L’encausto quando l’hai scoperto? «Subito, negli anni ottanta. L’encausto veniva dal fatto di avere un padre restauratore, molto curioso, anche (insieme a mia madre) apicultore. Di qui l’idea di utilizzare le cere, che poi ho argomentato con minerali e altre sostanze: c’è ancora tanto da scoprire, proprio tecnicamente, per riuscire a vedere i materiali in un modo nuovo e interessante». Ci avviciniamo al quadro: non è solo encausto… «Questo è encausto, questo è olio… Se qui dove è dipinto vedevi questi rossi senza le vernici (che adesso devono un po’ riposarsi) erano più spenti: ora sono tornati, non lucidi, ma brillanti. Il colore, seccandosi, perde la sua vivacità: i colori di Ingres, non parliamo di quelli di van Eyck, erano tutti sottoposti alle vernici e riprendevano vita. Gli stessi violini Stradivari, una volta verniciati, suonavano meglio. L’encausto non dobbiamo verniciarlo, solo le parti dipinte…» Ed è una serie che nel tuo lavoro introduce un coefficiente diverso? «C’è questa frantumazione, ogni tanto compare qualche ‘personaggio’, ma l’origine di tutti i pezzi è figurativa. Il tipo di composizione mi permette di lavorare con estrema libertà fra diversi colori, diverse situazioni, senza interferire con il gesto…».
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