Concessioni, si spostano le lancette
Ri-mediamo Siamo arrivati alla fine dell’anno e il quadro rimane assai incerto. È un problema tecnico o c’è dell’altro?
Ri-mediamo Siamo arrivati alla fine dell’anno e il quadro rimane assai incerto. È un problema tecnico o c’è dell’altro?
Di proroga in proroga fino alla vittoria? Giusto per dire. Ma la Rai vede sempre più assottigliarsi il suo status di servizio pubblico. Infatti, ecco che l’intramontabile decreto «mille proroghe» contempla un ulteriore spostamento del calendario: le lancette del rinnovo della concessione si spostano a fine marzo del 2017. Con allegata convenzione, istituto abolito dalla vecchia legge Gasparri (n.112 del 2004) e ora riscoperto. Sull’articolato è d’obbligo il parere della Commissione parlamentare di vigilanza, che ha un mese di tempo, da quando – però – il testo viene inviato dal Governo.
Al momento, non sembra esservi una traccia ufficiale, mentre – se mai – si rincorrono voci sull’eventuale rimaneggiamento dei tetti degli affollamenti pubblicitari. Oggi la trasmissione di messaggi pubblicitari da parte della Rai non può eccedere il 4% dell’orario settimanale di programmazione ed il 12% di ogni ora (con possibile sforamento del 2% da recuperare nell’ora antecedente o successiva). Voci di dentro fanno sapere che è stata studiata l’ipotesi di estendere al calcolo quotidiano il limite settimanale, con la perdita inesorabile di circa 80 milioni di entrate. Forse il verbo è al passato, se è vero ciò che ci ha dichiarato direttamente il sottosegretario con delega Giacomelli, il quale ha escluso tale «decrescita». Chissà, forse è intervenuto un ripensamento.
Comunque, «non ti fidar di un bacio a mezzanotte», cantava il «Quartetto Cetra». Non ci vuole, del resto, uno stuolo di esperti per capire che nella pubblicità l’effetto dei vasi comunicanti è settoriale: ciò che non va alla Rai corre verso Mediaset e in misura assai minore verso La7, per le analogie dei palinsesti. Vediamo, scripta manent.
In genere, tuttavia, quando una cosa comincia a ronzare prima o poi si avvera. Come la profezia. Del resto, è scattato il «soccorso rosso» per le aziende berlusconiane, sotto attacco da parte dei francesi. E in nome della ritrovata «italianità» può persino accadere che si tagli ciò che effettivamente dovrebbe appartenere all’identità nazionale, come prevede il «Protocollo di Amsterdam» del 1997 in merito ai servizi pubblici.
Torniamo alla concessione tra lo Stato e la Rai. La primaria scadenza del 6 maggio fu traguardata attraverso l’anomalo veicolo del decreto legislativo sul codice degli appalti, che rinviò al 31 ottobre. La legge sull’editoria (salvo la gaffe sull’entrata in vigore della norma che lasciò l’azienda priva di copertura giuridica per quindici giorni) battezzò un nuovo termine, il 31 gennaio del 2017. E arriviamo ai giorni nostri.
Non si capisce a che sia servita la conclamata consultazione dei soggetti interessati, cui sarebbe dovuta seguire logicamente una scrittura tempestiva e precisa: a cominciare dai contorni richiesti alla soggettività del servizio nell’era digitale.
Siamo arrivati alla fine dell’anno e il quadro rimane assai incerto. È un problema tecnico o c’è dell’altro? Non solo. La recente legge di bilancio ha ridotto a 90 euro l’importo del canone, con una prevedibile abbassamento delle risorse di almeno 150 milioni. Insomma, il fatturato, oggi 2 miliardi e mezzo di euro, subirà un bel taglietto.
Cui prodest? E che senso hanno le ulteriori voci in merito ad un rientro in grande della Rai nella corsa per i diritti del calcio, serie A e Champions? Sarebbe una bizzarria, che potrebbe trascinare agli inferi i conti. A meno che vi siano novità impreviste , eccentriche rispetto ad un bilancio giusto in pari.
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