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Con «Viaggio a Tokio» l’autore compie un rito di rinascita

Con «Viaggio a Tokio» l’autore compie  un rito di rinascita

Intervista Parla Vincenzo Filosa che ha realizzato un insolito fumetto. Racconta la storia di un ragazzo appassionato di cultura giapponese che desidera diventare creatore di manga

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 27 febbraio 2016

Pubblicato lo scorso anno da Canicola, casa editrice bolognese che da 10 anni seleziona il meglio delle produzioni internazionali nell’ambito del fumetto di ricerca e del disegno contemporaneo applicato alla narrazione, Viaggio a Tokio, di Vincenzo Filosa, è uno dei fumetti più insoliti usciti lo scorso anno: con un impianto da manga, il libro racconta la storia di Francesco, un ragazzo che da Crotone parte per il Giappone per seguire il cammino che lo porti a realizzarsi come mangaka. Da sempre lettore di fumetti, laureato in lingue e letterature orientali e traduttore dal giapponese, l’autore- che dichiara la sua assoluta dipendenza dall’arte sequenziale- racconta nel libro la propria quest, una ricerca umana e creativa dolorosa, sebbene piena di slancio e di intenzione, appropriandosi di stilemi narrativi del fumetto giapponese e offrendo un punto di vista del tutto nuovo su filoni meno conosciuti dell’arte sequenziale nipponica.

Viaggio a Tokio è la storia del tuo alter ego, Francesco, che finalmente compie il viaggio tanto atteso in Giappone, alla ricerca di se stesso come autore e come uomo. Sin dall’inizio però il protagonista appare completamente fuori luogo, affannato, inadatto e spesso in difficoltà. Aldilà dell’aspetto autobiografico, ho avuto la sensazione che fosse uno straniamento estendibile a tutto il mondo occidentale, come se da qui non riuscissimo a capire del tutto la cultura nipponica. Cosa ne pensi?

Sì, assolutamente. Credo che sia giusto e corretto dirlo. Si tratta di una differenza culturale che per me riguarda principalmente i ritmi di vita: quelli giapponesi frenetici, sono opposti ai nostri, specialmente a quelli del sud che sono lentissimi, se non soporiferi. Un altro aspetto di quel paese che mi ha lasciato completamente spiazzato è l’intensità con cui in Giappone si vive ogni momento: arrivavo in Giappone da neolaureato, conoscevo il paese attraverso i libri e i film, che raccontano una vita diversa da quella che si respira lì, soprattutto nella città di Tokio che vive di mille influenze, che a ogni angolo si trasforma, per avvicinarsi all’occidente, o al contrario, per rimanere attaccata alle sue rappresentazioni tradizionali.

Il senso di inadeguatezza del protagonista si conferma di fronte alla mole di fumetti nella mitica libreria Mandarake-una vera Babele del manga: nella sua proiezione, Francesco sta per intraprendere un viaggio verso una delle due vette del fumetto giapponese, sulle quali siedono rispettivamente Osamu Tezuka, padre del manga tradizionale e Yoshiharu Tsuge, punta di diamante del manga sperimentale. Perché scegli Tsuge, e poi infine suo fratello, Tadao, come punto ultimo di questa ricerca, e non, per esempio, il più noto Yoshihiro Tastumi?

L’immagine è ispirata alla definizione che ha dato un famoso critico giapponese del contrasto tra manga commerciale e gekiga inteso come fumetto alternativo. Tastumi Yoshihiro è considerato il padre del gekiga, che è uno stile fatto di sequenze uniche che raccontano con estrema cura e amore per il dettaglio la realtà di tutti i giorni, al quale mi sono direttamente ispirato per il mio libro. Quando sono partito conoscevo Tastumi ma quasi per niente i lavori dei fratelli Tadao, che erano quelli che mi interessavano di più. Il gekiga di Tastumi è un tipo di fumetto dai toni cupi molto legato alla realtà, che evita l’umorismo: nasce nel dopoguerra da autori che si trovano ad affrontare degli stati d’animo e quindi delle tematiche fino ad allora sconosciute, ed è proprio una forma di reazione al manga, inteso come fumetto divertente; non può contenere umorismo né comicità. Nel lavoro di Tsuge Yoshiharu, invece, la dimensione del sogno porta una realtà che è fatta anche di momenti divertenti come nel surrealismo. È con lui che nasce il vero fumetto alternativo giapponese, in una sequenza che riesce ad unire opposti inavvicinabili, materiali quotidiani e onirici e in questo risiede la forza e il risultato encomiabile di questo autore. Per quanto riguarda Tsuge, il fratello, come racconto nel libro, comprai dei volumi in cui il nome dell’autore differiva solo per un paio di ideogrammi, immaginati il senso di spaesamento che provai, aprendolo, quando vidi immagini e sequenze molto realistiche, in cui questo passaggio tra dimensioni opposte, tra il bello e il brutto della vita è ancora più fluido e diviene la sua cifra stilistica, un metodo che è stato la base da cui sono partito per costruire il mio libro.

Francesco ripete più volte che Tsuge Tadao era un genio perché aveva pubblicato la sua autobiografia su una rivista di pesca. Quali sono le caratteristiche del suo lavoro che ti hanno convinto a legare l’esperienza del tuo personaggio alla sua figura?

Mentre Tastumi e Tsuge Yoshiharu cercavano di filtrare la realtà secondo un certo senso estetico, Tsuge Tadao abbatte questi filtri, opta per una narrazione immediata e decide di raccontare la vita nei suoi aspetti positivi e negativi senza filtri, in modo molto diretto. Non ha mai avuto successo perché non ha mai avuto quel tratto e quello stile raffinato dei suoi colleghi, ad esempio sulla rivista Garo. Quest’immediatezza riguarda ogni ambito della creazione, per esempio lui non utilizza lo storyboard (e anch’io l’ho abbandonato per questo fumetto), non cerca la bellezza, ma solo di infondere un messaggio in quello che racconta. Pubblicare la sua autobiografia su una rivista di pesca, oltre a parlare chiaro sull’urgenza espressiva dell’autore, ne rivela anche la totale assenza di programmazione nel lavoro. Nemmeno io programmo la mia carriera, ma se c’è una storia che vale la pena di raccontare, credo che sia bene prendersi il tempo per farlo, anche senza necessariamente far divenire la narrazione un mestiere. Leggendo varie interviste di Tsuge Tadao ho capito che da giovane era quello che più probabilità aveva di fare carriera come disegnatore, ma in seguito la vita lo ha allontanato da questa possibilità, mentre il fratello ha iniziato a riscuotere successo. Tsuge Tadao ha iniziato a disegnare per una pura urgenza espressiva: questo accomuna il mio lavoro al suo.

Hai dichiarato spesso di essere uno studioso ossessivo dell’opera dei grandi maestri giapponesi. Qual è l’insegnamento più grande che trarresti dall’opera di Tsuge Tadao ed esistono richiami diretti grafici o tematici al suo lavoro nel tuo modo di raccontare la tua esperienza in Giappone?

Ogni capitolo ha un riferimento stilistico alla sequenzialità dei vari generi o movimenti discendenti dal manga, in particolare c’è un capitolo in cui il protagonista ripercorre alcune tappe della sua storia. Essendo Tsuge Tadao sconosciuto in Europa, mi è sembrato perfetto infondere il suo stile a questa parte, riportarlo su carta e mostrarlo, con la doppia speranza di riuscire anch’io ad avvicinarmi a lui.

 

Oltre a essere la storia di una ricerca interiore, «Viaggio a Tokio» è anche una discesa nel profondo dell’immaginario grafico contemporaneo giapponese, al quale rendi tributo. Qual è la tua posizione di fronte a questo enorme bacino grafico e culturale? Su cosa ti sei concentrato per caratterizzare in modo personale gli elementi chiaramente recuperati da questa tradizione?

Il manga è ovviamente una produzione di massa, ma io non sono un grande amante della sovrapproduzione, che non apprezzo nemmeno nel panorama editoriale italiano e che è invece un elemento intrinseco della diffusione della cultura grafica giapponese. Mi affascina però che per ogni persona, ci sia un fumetto, accessibile a tutti, che ne racconta la storia. Per quanto riguarda gli stili, è stato facile perché la storia parla della passione del protagonista per un tipo specifico di fumetto; d’altra parte mi sono anche ispirato a generi che non apprezzo come lo story manga, che è il manga «dialogato», dove la storia avanza grazie alle parole dei personaggi-mentre a me piace molto l’importanza della sequenza-e il manga sportivo, come Holly e Benji, che però mi è servito moltissimo come struttura perché si basa su un concetto di grind, di sfida, che io ho rappresentato con una piccola variante. Nel mio fumetto c’è uno sforzo per arrivare a un obiettivo, ma i capitoli sono ciclici: c’è una partenza, la tensione verso un climax e un ritorno sistematico al punto di partenza. Le storie che compongono il libro sono tutte create così.

Quanta ironia del Filosa autore c’è nell’affermazione di Francesco «sono stato giapponese nella vita precedente» ? Sembra la rivendicazione di un senso di appartenenza doloroso perché inappagabile…

Direi che è la battuta clou del fumetto, è legata a quelle che sono state le mie ambizioni, e le mie presunzioni, in quel momento molto problematiche. Era il periodo in cui ancora cercavo una via, e quella frase funzionava come una spregiudicata ed eroica dichiarazione di intenti che poi si risolve in un niente di fatto.

È stato terapeutico scrivere il libro?

Moltissimo perché scrivendolo ho rivisto com’ero allora. Concepirlo è stato molto faticoso, alcune parti erano già state pubblicate in forma di diario e quando ho pensato di farne una storia lunga ho immaginato un libro di viaggio, un fumetto alla Guy Delisle o Joe Sacco, che però hanno una vocazione giornalistica e impegnata, assente nel mio lavoro. Poi invece per scriverlo ho abbandonato la prima persona e ho così potuto scindere il me stesso di allora da quello che sono adesso, e osservarmi da quel punto di vista è stato molto importante e mi ha fatto capire quanta ironia ci potesse essere nel mio voler diventare giapponese.

A cosa imputi le lacune editoriale dell’occidente e verso quali di questi autori spereresti che si orientasse il recupero editoriale?

Se dovessi farlo io, partirei dalla storia e pubblicherei libri che raccontino cos’era il gekiga e com’è nato: in Italia, Bao Publishing ha pubblicato La mia vita ai margini di Yoshihiro Tastumi, che però non è correttissimo dal punto di vista storico, poiché racconta in maniera piuttosto dolce e gentile il contrasto che c’era tra Tastumi stesso e Tezuka: il gekiga era la reazione al manga, ed era firmato da autori che nascevano sì sotto la protezione di Tezuka, ma che appena trovavano la loro strada se ne allontanavamo drasticamente. Lampi, sempre di Tastumi è una raccolta di racconti scritti e realizzati secondo le regole della nuova forma di fumetto. Partendo da qui, non esiste un modo preciso di portare questi libri in Italia, anche perché le varie opere sono molto diverse tra loro, proprio per la libertà di espressione che avevano gli autori, e sarebbe quindi difficile tracciare un criterio. Certo è che molti sono romanzi piuttosto estesi, che somigliano a dei graphic novel ante litteram, una forma a noi familiare che non avremmo difficoltà ad apprezzare a pieno.

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