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Con un patrimonio di lotta e utopia

Con un patrimonio di lotta e utopiaPinar Selek – Foto Getty /Images

Intervista Parla la sociologa e scrittrice turca Pinar Selek, in occasione del suo ultimo libro «L'insolente», per Fandango. «La mia vita è stata dedicata a scoprire i limiti, le frontiere segrete, quelle invisibili: sono molto forti, le abbiamo assimilate»

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 23 dicembre 2023

«Mi sono ritrovata in mezzo al mare con il timone in una mano e la vela nell’altra, e ho avuto una rivelazione. Ho capito che quando vado in una direzione con un motore, raggiungo facilmente la meta orientando la barca. Con i remi la raggiungo con più difficoltà ma posso facilmente seguire la rotta. Ma se sono su una barca a vela, non posso seguire la direzione da sola. Devo tener conto del vento. È la stessa cosa per una trasformazione sociale: se vuoi trasformare la società, devi farlo con un movimento della società. Come posso andare nella mia direzione quando il vento soffia in un’altra?».
La rivelazione si è affacciata alla mente di Pinar Selek sulle acque di Istanbul, sul Bosforo. Da quella città la sociologa e scrittrice turca, attivista femminista e libertaria, manca da anni: è in auto-esilio in Francia per sfuggire a una persecuzione giudiziaria iniziata più di vent’anni fa e che la vorrebbe in prigione a scontare l’ergastolo per terrorismo. La sua lunga storia di attivismo e la guerra legale con cui lo stato turco ha provato a imbrigliarla le racconta in L’insolente (Fandango, pp. 272, euro 19, traduzione di Giulia Ansaldo), scritto insieme all’amico Guillaume Gamblin.
Il libro è stato presentato in anteprima in Italia lo scorso primo dicembre a Salerno, nell’ambito del festival Mediterraneo Contemporaneo, curato da Maria Rosaria Greco. Abbiamo raggiunto Selek al telefono: non può lasciare la Francia, su di lei pesa un mandato d’arresto internazionale.

«L’insolente», così la chiamava il giornalista armeno Hrant Dink, assassinato nel 2007. Il «peccato» dell’insolenza sembra sempre più necessario, soprattutto nelle lotte femministe: diventare «sfacciate», di fronte a un sistema patriarcale che opera su più livelli e senza confini?
Penso che essere sfacciate sia obbligatorio, ma non sufficiente. Si può essere sfrontate, ma soprattutto bisogna essere intelligenti, avere delle strategie per cambiare le cose. Dire semplicemente «non ci sto», «non mi sottometto», non è abbastanza. A volte è necessario anche saper scappare o nascondersi. Soprattutto, sviluppare strategie e intelligenze collettive.
Il libro ripercorre la sua vita e l’intersezione delle sue lotte, tanto più necessarie in un paese dai mille volti come la Turchia. Turchi, curdi, armeni, donne, suore, prostitute, bambini, artisti di strada, prigionieri politici… un mosaico di esistenze che arricchiscono anche la sua. È possibile oggi, in uno Stato autoritario, che sogna un’unica identità nazionale, collegare le singole realtà?
Ci sono cose negative che possono avere effetti positivi. In Turchia la repressione ha unito gruppi sociali oppressi e movimenti sociali, che lottano contro diversi sistemi di dominazione e oppressione. E quando si palesa questa repressione e dunque questa convergenza, è inevitabile che ci siano scambi, viaggi, idee, esperienze, percorsi, concetti, e che ci siano trasformazioni in ogni gruppo. Ci sono gruppi che non riescono a trasformarsi, ma altri lo fanno. In questa rete, che a volte si disimpegna, ci sono organizzazioni che non riescono a diversificarsi ma che sono molto concentrate su alcuni temi e su forme di attivismo autonomo. A livello individuale si mantiene un’autonomia, la tua lotta non rappresenta la tua identità. Puoi viaggiare tra differenti battaglie: esplorando e lottando, ti trasformi, non sei più la stessa persona perché incontri esperienze, individui, critiche sociali. Ogni lotta è anche un processo di mutazione.

Come suo padre, ha conosciuto la prigione e la tortura. Come suo nonno, si è sempre schierata dalla parte degli oppressi. La storia della sua famiglia dipinge un quadro di repressione che non si è mai fermata, ma anche di ostinazione a reagire. In che misura la sua famiglia ha influenzato la sua personalità politica? E in che misura la Turchia è cambiata (o meno) nel corso dei decenni in termini di regime nazionalista e militarista?
Un processo giudiziario che dura da oltre 25 anni dimostra sia la continuità del regime repressivo sia i nuovi meccanismi che sono stati introdotti. Ma i nuovi sistemi non sostituiscono i vecchi: coesistono nello stesso tempo, nello stesso spazio e nel mio vissuto. Il mio caso è un piccolissimo punto in un grande quadro, che non è iniziato con l’attuale governo, ma con la costituzione della Repubblica turca. Tutta la mia famiglia, da tre generazioni, è coinvolta nella lotta per la libertà e l’uguaglianza. E ha sofferto. Mio padre ha passato cinque anni in prigione. Anche mio nonno. Ho un patrimonio di resistenza e di protesta. E un patrimonio di sogno di utopia. Questa esperienza mi ha dimostrato che esiste una struttura politica nazionalista e militarista che non è cambiata dal genocidio degli armeni, dal massacro dei curdi, ma continua utilizzando nuove tecnologie e nuovi dispositivi. Esiste però anche una continuità di resistenza che crea una cultura, un repertorio molto ricco. Io ne sono il frutto. Il passato nazionalista è molto presente nell’attualità. So che non ci arrenderemo, ma non so come potremo essere più forti di quanto lo siamo oggi.

A causa della sua condanna all’ergastolo e del mandato di arresto internazionale, non può viaggiare. In un mondo sempre più globalizzato, il concetto di frontiera non è in discussione: i limiti legali che le impediscono di tornare a casa si basano sulla persecuzione politica. Ci sono poi le frontiere nazionali e nazionaliste, dirette contro il Sud del mondo e l’ovvio desiderio di viaggiare e migrare. Infine, ci sono quelle economiche, meno visibili, ma che svelano disuguaglianze strutturali all’interno dei singoli paesi. Cos’è per lei il confine?
Il dominio è il potere di porre limiti agli altri, in modi diversi. In Turchia non ho mai potuto esprimere le mie opinioni, la mia vita è stata dedicata a scoprire i limiti, le frontiere segrete, quelle invisibili: che sono molto forti perché le abbiamo assimilate. Durante la mia vita passata a decostruire me stessa, mi sono resa conto che stavo superando questi confini. Quando sono arrivata in Francia, è stato più difficile: non avevo punti di riferimento. Iniziando a viaggiare – ora non posso farlo molto in Europa – ho potuto accorgermi che ci sono confini altrettanto invisibili. Quelli intorno all’Europa lasciano fuori le persone e i paesi poveri. Sono confini di ricchezza. Dentro i singoli paesi, poi, non ci sono più gli spazi pubblici di prima, ci sono spazi pubblici-privati: dove si incontrano i ricchi? Dove si incontrano i poveri? Dove si incontrano i migranti? Sono sempre più separati, ci sono sempre meno luoghi nei quali le persone possono mescolarsi, fare cose insieme. Lottare contro i confini politici non è sufficiente, perché tutte le frontiere si basano le une sulle altre. La mia battaglia per le libertà è multidimensionale.

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