Ho conosciuto Roberto Roversi nel 1974. Leggevo i suoi articoli civili sul manifesto, ma la sua fama era legata alla libreria antiquaria «Palmaverde», che era un porto di mare dove arrivavano i giovani poeti che aspiravano alla pubblicazione dei loro versi. Non era facile trovare in Italia un lettore così attento, aperto, democratico, che leggeva le raccolte di esordienti senza dover passare per le segreterie delle case editrici e aspettare tempi lunghissimi prima di avere una risposta.
Avevo appena pubblicato Mitolatrie (insieme a Michele Coco e a Cosma Siani), che per i benpensanti del mio paese era considerato un libro di comunisti. Ne inviai copia a Roversi, che mi rispose prontamente. Non che quel suo biglietto fosse un evento capitale, ma in un certo senso si rivelò ricco di frutti. Roversi non era autore da salotti letterari, ma sudai sette camicie prima di conoscerlo. La Palmaverde – che stava allora in via de’ Poeti a Bologna – era un luogo speciale, una sorta di cattedrale, con pareti altissime, scaffalature severe, zeppe di libri. Quel giorno che lo incontrai, rinunciò al giro consueto delle librerie. Avevo tempo di stare con lui fino a mezzogiorno, poi doveva correre al tribunale per una perizia di una biblioteca privata. Quando bussai al portone, mi aprì una figurina delicata, sorridente (era sua moglie Elena, che veniva dagli Abruzzi). Egli, come un artigiano, legava le Descrizioni in atto. Cuciva i fogli con tre fermagli metallici e impacchettava.

Non parlammo quella mattina di libri, di poeti, né di Mitolatrie, ma di Pasquale Soccio, di cui era stato ospite nella sua casa di campagna e che per fargli festa aveva stappato una bottiglia di vino nero impeccabile del 1898. Parlammo del Gargano, dei pescatori di Varano, che allineati sulle chiuse afferravano i cefali con le mani. Non so dire cosa mi portavo dentro di me: il poeta, il libraio, l’editore, l’antiquario? Ma da quel giorno i miei libri, i miei poeti, le mie letture non furono gli stessi.
L’ho frequentato per molti anni. Nel torrido giugno del ’77 fui anche suo ospite. Ricavo la data dall’album che mi donò in quell’occasione. La cosa straordinaria di quelle giornate bolognesi è che dormii in una stanza stracolma di libri, come tutta la sua casa. Ai piedi del letto, da un’anta della scaffalatura, fuoriusciva una cartella in plastica chiusa con due nastrini neri, attaccata al dorso una etichetta di quelle che si appiccicavano una volta sul dorso dei libri delle biblioteche, con la scritta «Leonardo Sciascia». Erano le lettere che l’autore di Nero su nero scrisse a Roversi negli anni 1953-1972. Sfogliai più volte quelle carte, non potendo mai immaginare che trentaquattro anni dopo sarebbero state mie, per un gioco del destino.
Ogni estate, di ritorno da una città del Nord, dopo gli esami di maturità, mi fermavo a Bologna e vi passavo alcune ore con lui. La Palmaverde era una libreria antiquaria invincibile, solo gli artigli edaci del tempo ne hanno decretato la fine. Per oltre mezzo secolo è stata un laboratorio di esperienze letterarie. Qui nacquero la mitica «Officina» e «Rendiconti», le canzoni per Dalla: Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa, Il futuro dell’automobile. Vi arrivavano Calvino, Vittorini, Tonino Guerra, Volponi e, da Racalmuto, Leonardo Sciascia.

Mi riceveva nel suo studiolo, stipato di libri e cartelle, dove un ottocentesco abat-jour sempre acceso illuminava la piccola stanza, in cui a malapena c’era posto per un solo ospite. Roversi era un antiquario coltissimo, ma soprattutto un grande poeta civile. Era attento alle parole dell’interlocutore e non permetteva mai che la conversazione scadesse su temi frivoli. Non mi lasciava andare prima di informarsi sulla vita materiale della mia Capitanata, sulla raccolta del pomodoro, sui braccianti di Di Vittorio.

Passarono molti anni da quando ebbi tra le mani le lettere di Sciascia, ma la mia passione per lo scrittore siciliano era cresciuta. Un giorno, dopo la morte dello scrittore, ne scrissi a Roversi. Mi rispose sollecito: «Caro Antonio per il tuo archivio Sciascia, devo ancora andare, e sicuramente andrò in via Montegrappa, dove, in un sottoscala, ho ammucchiato casse, cassine e cassette con le varie carte mie private». Ma delle lettere, dopo un attento riscontro, non c’era traccia.
Vent’anni dopo seppi da lui che tutte le sue carte erano state donate alla biblioteca comunale di Pieve di Cento. Col suo consenso mi rivolsi al funzionario del Comune che le aveva in custodia per avere in copia le lettere. C’erano difficoltà burocratiche: aprire i pacchi sigillati, inventariarle, approvare un’apposita delibera di giunta. Nel mezzo di questa febbricitante trattativa, un fervente comunista del mio paese che sapeva del mio interesse per Sciascia, mi segnalò di aver letto su L’Unità un articolo sull’epistolario Sciascia/Roversi. Com’era possibile? Non dovevano essere le lettere nella biblioteca di Pieve di Cento? Chi le aveva date al giornale? Chiamai Roversi al telefono deciso a venire a capo di questo mistero. Per un sortilegio del destino le lettere di Sciascia, insieme a quelle di Calvino e Pasolini, non erano finite negli scatoloni del comune. Dimenticate, sfuggite? Qualche mese dopo, lo scrittore bolognese mi scriveva: «Caro Antonio, ti dono in originale le lettere, il carteggio di Sciascia. È tuo. Non è ordinato, non ho avuto tempo». Non lessi subito quelle carte, non prima di essermi procurato le lettere di Roversi a Sciascia, che la Fondazione di Racalmuto mi inviò in copia. Sono lettere di due utopisti, di due intellettuali solitari, liberi, che sognano un’impossibile Italia civile, scritte per la gran parte quando l’Italia (e la Sicilia) era agricola e contadina. Parlano di libri, di poeti, di scrittori, ma nascondono un’ansia e una perseveranza che solo i «poveri» conoscono.

Nell’ultima lettera a Roversi del 16 marzo 1972, Sciascia – che è appena uscito dagli strali violenti scagliati dai maggiorenti del Partito comunista al Contesto – scrive: «Caro Roberto, anche se da qualche anno non ci vediamo e non ci scriviamo, la mia simpatia e amicizia per te è sempre viva (…) Io mi sono un po’ isolato, in questi ultimi tempi. Sono scontento di tutto, e anche di me stesso. Ma cerco ancora di dire la verità, quella che è la mia verità. Ignazio (Buttitta ndr) mi dice che il mio ultimo libretto non ti è dispiaciuto, e che ne hai scritto su “Giovane Critica”. Cercherò di trovare il numero (qui tutto è difficile)».

Sciascia e Roversi non si incontreranno più, ma a distanza si leggono, combattono le stesse battaglia civili. Sciascia scriverà i pamphlet del disinganno (Todo modo, Candido, L’affaire Moro, Nero su nero), Roversi i versi dell’indignazione (Le descrizioni in atto, L’Italia sepolta sotto la neve).

Negli anni novanta dirigevo i «Fogli da Borgo Celano», una collana di testi adornati da un’incisione di un Maestro contemporaneo, stampati su carta pregiata in pochi esemplari. Decisi di dedicare il settimo numero a Roversi, che era un bibliofilo. Mi fece avere Il Libro Paradiso. Poesie degli anni ’70 e ’80. Il titolo alludeva al Paradiso che su questa terra non c’è e che l’autore di Dopo Campoformio ostinatamente aveva cercato. Fogli volanti scritti di getto, nella battaglia, che era il suo vivere quotidiano. Duri ma dolcissimi. Curò personalmente la stampa, dalla correzione delle bozze alla scelta dei caratteri, quelli severi che a lui piacevano. Per il proto scrisse questo biglietto: «Non si potrebbe cercare un carattere meno floreale per il testo del frontespizio?». Lo dedicò alla nipotina «Caterina, anno primo, luglio ’93». Piero Guccione incise Un ibisco per Roversi. Ci vollero sette lastrine (due su rame e cinque prove litografiche) per ottenere tutte le sfumature sensuali dell’ibisco.
Nel «Centro Documentazione Leonardo Sciascia/Archivio del Novecento» di San Marco in Lamis sul Gargano si conservano tutti i suoi libri, le lettere, il racconto Gargano ’61 (frutto del suo viaggio insieme ai registi Carlo Di Carlo e Aldo D’Angelo), l’album Dieci canzoni per Dalla, gli articoli scritti per il manifesto, «Il Cerchio di Gesso», «La Città Futura», «Bologna Incontri», «La Tartana degli Influssi», «Lo Spartivento», «Numerozero» e la raccolta completa della rivista «Rendiconti».