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Con la primavera rifioriscono i Talebani

Con la primavera rifioriscono i TalebaniColonna taleban in marcia – Reuters

Afghanistan Il Consiglio supremo dei «mujahedini» lancia la consueta offensiva stagionale contro l'«invasore occidentale», a base di «attacchi sistematici e coordinati di infiltrati nelle basi militari degli stranieri» e «operazioni di martirio collettivo», Rivendicando, alla vigilia del ritiro degli esercito stranieri, la vittoria finale

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 28 aprile 2013

I Talebani rivendicano la vittoria definitiva e annunciano l’inizio dell’offensiva di primavera. Lo fanno, come di consueto, con un comunicato  pubblicato ieri su Voice of Jihad, il sito dell’Emirato islamico di Afghanistan, rinnovato graficamente e disponibile in lingua pashtu, farsi, arabo, urdu e inglese.

[do action=’quote’ autore=’Il Consiglio Supremo Taleban’]«Grazie all’Onnipotente Allah», la determinazione dei mujahedin «ha provocato ai miscredenti una sconfitta memorabile in ogni campo. Il nemico, con tutta la sua potenza militare, è stato schiacciato e alla fine costretto a scappare dalle sue basi»[/do]

Il comunicato è di quelli che vanno presi molto sul serio, perché proviene dal consiglio supremo della leadership talebana, di stanza a Quetta, in Pakistan, e come al solito è molto esplicito: «La nazione afghana dei mujahedin» – recita il testo – ha combattuto negli ultimi undici anni «in difesa della sua religione e del suo paese contro i crociati invasori e i loro sostenitori senza spina dorsale». «Grazie all’Onnipotente Allah», la determinazione dei mujahedin «ha provocato ai miscredenti una sconfitta memorabile in ogni campo. Il nemico, con tutta la sua potenza militare, è stato schiacciato e alla fine costretto a scappare dalle sue basi».
Per i Talebani, il progressivo ritiro dei soldati stranieri nell’ambito del processo di transizione Enteqal è dunque il risultato dei loro sforzi sul campo di battaglia. Sforzi che verranno ulteriormente intensificati con l’offensiva di primavera Khalid bin Waleed, che comincia oggi. La data non è casuale: il 28 aprile in Afghanistan si festeggia il giorno della vittoria dei mujahedin afghani contro il regime di Najibullah, quella Repubblica democratica d’Afghanistan sconfitta il 28 aprile 1992, «il giorno del trionfo del nostro sacro Jihad contro il comunismo» secondo gli studenti coranici. Anche il nome dell’offensiva non è casuale: compagno del profeta Maometto e abile stratega militare e combattente, soprannominato «la spada di Allah», Khalid bin Waleed (592-642) è ricordato dai seguaci del mullah Omar per aver causato sconfitte clamorose all’Impero romano d’Oriente a Damasco e, nel 636, a Yarmuk (nei pressi dell’attuale confine tra Siria e Giordania), favorendo l’espansione territoriale e ideologica dell’Islam.
Il riferimento storico serve a dare legittimità alla battaglia dei Taleb, ma anche a sollecitare i credenti afghani a scacciare i nuovi «invasori occidentali, liberando la nazione dalle cuspidi dell’occupazione e stabilendo un regime islamico». I metodi per farlo sono chiari: «Attacchi sistematici e coordinati di infiltrati nelle basi militari degli stranieri»; «operazioni di martirio collettivo nelle basi degli invasori, nei lori centri diplomatici e nelle basi militari aeree»; «ogni possibile tattica per infliggere perdite agli invasori».

La capacità di farsi sentire

Qui a Kabul sono tutti consapevoli che il lancio «all’unisono in tutto il paese» dell’offensiva annuncia giornate ancora più sanguinose di quelle passate: il 2013 è un anno cruciale, perché precede quello del ritiro finale, e perché i Taleb e gli altri gruppi governativi hanno già dimostrato di avere la capacità di farsi sentire. Secondo le stime di Anso, l’agenzia che raccoglie dati sulla sicurezza per le organizzazioni non governative nel paese, nel periodo gennaio-marzo 2013 c’è stato un aumento del 47% degli attacchi antigovernativi rispetto al 2012. Mentre secondo le Nazioni Unite nei primi tre mesi del 2013 le vittime civili sarebbero salite del 30% rispetto all’anno precedente (475 vittime e 872 feriti). A dispetto di questi dati e «nonostante le tante sfide che ancora rimangono», mercoledì scorso il generale Joseph F. Dunford, comandante delle forze Isaf, in un comunicato stampa ha rivendicato il miglioramento della sicurezza nel paese»: 8 milioni di bambini che vanno a scuola; 17 milioni di telefoni cellulari; accesso alle cure mediche per l’85% della popolazione. Sarebbero questi, per Dunford, i segni «inconfutabili» del «progresso verso l’obiettivo finale», la stabilità del paese.
Eppure, quella stabilità non solo non c’è, ma appare ancora lontana. Il sistema politico-istituzionale è inefficiente, dominato dalla corruzione; le forze di sicurezza locali (350.000) sono impreparate e prive di adeguato equipaggiamento; le lezioni presidenziali fissate per il 5 aprile 2014 prefigurano altri dissidi e scontri. Soprattutto, il piano di riconciliazione con i Talebani – prima avversato e poi sostenuto anche dagli Usa – «è in situazione di stallo», come dichiarato venerdì scorso ad Almaty, in Kazakistan, dal vice-ministro degli esteri russo.
Igor Margulov ha espresso le sue preoccupazioni sul «deterioramento della situazione politica e militare» afghana al terzo incontro ministeriale su Heart of Asia, il processo diplomatico inaugurato a novembre 2011 a Istanbul per favorire la cooperazione regionale per la sicurezza in Afghanistan e proseguito con il vertice del 14 giugno 2012 di Kabul. A promuovere il cosiddetto «processo di Istanbul» sono i principali paesi dell’area: Afghanistan, Cina, India, Iran, Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan, Russia, Arabia Saudita, Tajikistan, Turchia, Turkmenistan ed Emirati Arabi. A sostenerlo, organismi internazionali come l’Organizzazione per la cooperazione islamica e l’Organizzazione per la cooperazione di Shangai (che da giugno 2012 vede l’Afghanistan come paese osservatore).
Dall’incontro di Almaty è uscito un documento in cui vengono approvate 6 misure per ristabilire la fiducia tra i vari attori regionali e promuovere l’integrazione. In molti dubitano però che i diversi obiettivi politici e strategici in gioco possano essere ricomposti in tempo breve.

Le intenzioni future degli Usa

I più ottimisti segnalano che «il processo di Istanbul» sta comunque già «restituendo» l’Afghanistan al suo contesto di appartenenza, l’Asia, e che i grandi attori regionali sembrano finalmente consapevoli della posta e dei rischi in gioco (sarà la Cina, nel 2014, ad ospitare il quarto incontro). I meno ottimisti ricordano invece un dato fondamentale: non ci potrà essere nessuna soluzione regionale per l’Afghanistan fino a quando gli Stati Uniti non saranno chiari sulle loro intenzioni future. Le discussioni tra Washington e Kabul sull’accordo bilaterale di sicurezza proseguono da mesi senza risultato. Le voci sulle basi militari, sul numero e sullo status dei soldati che gli Usa vorrebbero mantenere si riconcorrono senza sosta e senza certezze.
Quali che siano le decisioni degli Stati Uniti, quel che è certo è che i soldati stranieri in Afghanistan continueranno a fare i conti con i Talebani: il 18 aprile in una conferenza a Berlino il ministro della Difesa tedesco, Thomas de Maizièr, ha annunciato che la Germania contribuirà con 600/800 soldati alla nuova missione della Nato, Resolute Support, che inizierà il 1 gennaio 2015 sostituendo la missione Isaf. I Talebani gli hanno risposto ufficialmente: «Colpiremo i soldati con tattiche speciali e operazioni jihadiste per costringere la Germania a ripensare alla sua decisione irrazionale». Da oggi, con l’inizio dell’offensiva di primavera, il messaggio degli studenti coranici sarà ancora più chiaro.

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