Italia

Con la pandemia più rischi per le vittime di tratta e sfruttamento

Con la pandemia più rischi per le vittime di tratta e sfruttamento

Il convegno organizzato dalla cooperativa Be Free fa il punto sul fenomeno. Mancano strumenti di contrasto nazionali, politiche sociali adeguate e canali d'ingresso legali in Europa

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 5 dicembre 2020

Le migranti rimaste senza protezione umanitaria a causa dei decreti Salvini, le ragazze in situazione di prostituzione forzata, le lavoratrici straniere sfruttate nel settore agricolo «sono particolarmente a rischio delle conseguenze più tragiche del Covid-19». A lanciare l’allarme è Maria Grazia Giammarinaro, magistrata e già relatrice speciale dell’Onu sulla tratta degli esseri umani. È intervenuta ieri al convegno organizzato dalla cooperativa sociale Be Free con il titolo: «Qual è la situazione della tratta degli esseri umani in Italia?». All’incontro, che si è svolto online al termine del progetto transnazionale Assist, hanno preso parte anche il pm Davide Mancini, impegnato nel contrasto del fenomeno sul piano giudiziario, l’assessora della regione Lazio Alessandra Troncarelli, Michele Lombardi dell’ufficio immigrazione della questura di Roma e diverse operatrici di Be Free.

Sul tema non sono mancati i segnali di allarme anche nei mesi scorsi: le ridotte possibilità di movimento, l’aumento di disoccupazione e povertà, la maggiore invisibilità delle vittime stanno facendo crescere le violenze subite e lo sfruttamento di chi è intrappolato nelle maglie della moderna schiavitù. I numeri riportati nel Rapporto Immigrazione 2020 pubblicato a ottobre dalla Caritas parlano di 40 milioni di vittime di tratta a livello globale: il 60% a scopo sessuale. Un terzo sono minori e sette su dieci donne o bambine. «Il dipartimento di stato Usa stima che in Italia il numero di vittime sia tra le 25 e le 30 mila, provenienti soprattutto da Nigeria, Russia, Ucraina, Albania, Romania, Bulgaria e Moldavia», si legge nel rapporto.

E proprio a partire da questo osservatorio privilegiato il convegno di ieri ha «acceso una luce» sul fenomeno, ponendo l’accento sulla sua dimensione di genere. «L’Italia è il primo paese di destinazione della tratta degli esseri umani, che parte dall’Africa e arriva qui attraverso la Libia», ha affermato la presidente di Be Free Oria Gargano. A fronte di questa collocazione strategica, però, mancano attenzione delle istituzioni e strategie di contrasto adeguate. «La lotta alla tratta non viene considerata una priorità», hanno lamentato diversi interventi. Per prima cosa il Piano nazionale d’azione contro la tratta e il grave sfruttamento (Pna) è scaduto nel 2018 ed è ancora in fase di ridefinizione.

Scarseggia poi la formazione degli operatori che entrano in contatto con le potenziali vittime e senza gli strumenti necessari non sono in grado di identificarle. Può capitare così che una donna nigeriana sbarchi in Italia, attraversi un hotspot, un centro di detenzione per il rimpatrio (Cpr), incontri la commissione per l’asilo, sia accolta in un centro d’accoglienza e poi finisca nuovamente nelle mani dei suoi sfruttatori perché nel frattempo nessun soggetto istituzionale ha avuto la capacità di riconoscerla come vittima di tratta. «È necessario estendere a livello nazionale le buone pratiche sviluppate sui territori», ha affermato Carla Quinto (Be Free).

Attraverso il lavoro sul campo e l’ascolto delle testimonianze di decine di donne, poi, le operatrici hanno ricostruito le trasformazioni avvenute negli ultimi anni lungo la rotta migratoria. Il «sistema Libia» è sempre più al centro della compravendita di donne e i maggiori rischi di «perdere corpi» lungo il tragitto spinge le organizzazioni criminali ad aumentare il reclutamento di ragazze in difficoltà. Anche per questo sono sempre più necessari canali d’ingresso legali in Europa.

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