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Con la flat tax Dulcamara al governo

La flat tax è una celebrazione della superficialità e della incapacità del governo di comprenderne le conseguenze. L’aliquota fiscale unica dovrebbe ridurre la pressione fiscale, e quindi aumentare consumi, investimenti, […]

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 10 luglio 2019

La flat tax è una celebrazione della superficialità e della incapacità del governo di comprenderne le conseguenze. L’aliquota fiscale unica dovrebbe ridurre la pressione fiscale, e quindi aumentare consumi, investimenti, produttività e generare tassi di crescita più elevati. Meno imposte, più Pil e maggiori entrate fiscali: la ricetta smentita da decenni di dati sembra prescritta dal dottor Dulcamara. Inoltre, la flat tax consentirebbe di far emergere una quota sostanziale delle attività nascoste al fisco, poiché un evasore che pagasse il 5% sarà certamente invogliato dalla tassa piatta a pagare il 20%. Il punto vero è però che si crede – o si vuol far credere – che tutti i risparmi si tramutano in investimenti. La storia economica ci dice che questo non è mai successo, almeno da quando esiste il libero arbitrio. Poiché sono gli investimenti a generare i risparmi, il vero problema che dobbiamo risolvere è come stimolare la domanda.

Il tutto viene proposto in un periodo in cui le disuguaglianze di reddito hanno raggiunto nuovi record – paragonabili solo al 1929 – e pare scandaloso l’impatto redistributivo della riforma fiscale che dà ancora di più a chi già ha, soprattutto quando numerosi studi hanno dimostrato che i redditi dei ricchi vanno in attività non produttive – di investimento non finanziario – ma di rent seeking. Stiglitz e i suoi coautori italiani hanno dimostrato che l’incremento dei comportamenti «predatori» dei più ricchi spiegano l’aumento della disuguaglianza degli ultimi anni anche attraverso la caduta del valore del moltiplicatore. È come se si fosse innescato un circolo vizioso dove l’eccessivo peso del settore finanziario ha causato crescenti disuguaglianze attraverso l’accumulazione di rendite nelle mani dei più ricchi. A loro volta queste risorse sono state reinvestite nella finanza i cui rendimenti erano più elevati degli investimenti produttivi, sottraendo così risorse all’economia reale.

L’aumento della disuguaglianza ha quindi ridotto i consumi, senza che l’aver reso i ricchi ancora più ricchi abbia fatto aumentare gli investimenti, come declamano i nostri Dulcamara al governo. E se la competitività non sembra essersi giovata che in minima parte della deflazione dei salari, ben più rilevante è l’insufficienza di domanda che questa provoca e che finisce col provocare la perdurante stagnazione.

La direzione di politica economica che dovremmo seguire non è diversa da quella dell’esecutivo: è l’opposto.

Se perfino il Fmi – una istituzione dichiaratamente liberista – rompendo le proprie tradizionali raccomandazioni, sostiene che «un aumento della progressività della tassazione del reddito, pur introducendo distorsioni, avrebbe effetti benefici proprio perché contrasterebbe l’ormai eccessiva, e penalizzante per la crescita, disuguaglianza nella distribuzione del reddito», la misura è colma. Che l’eccessiva disuguaglianza sia un freno alla crescita economica lo si sapeva in realtà fin dai tempi di Malthus: più disuguaglianza non porta a una crescita maggiore, come dimostra l’evidenza empirica, ma sostiene oggi il neo-liberismo col trickle down, l’effetto per cui se i ricchi diventano più ricchi anche i poveri ne beneficeranno (la teoria non specifica in quale vita). Se poi la riduzione del gettito fiscale prodotta dall’aliquota unica ci dovesse portare al ridimensionamento ulteriore dello Stato Sociale in Italia sapremmo che, almeno stavolta, migranti e Ong non hanno responsabilità.

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