Spesso di fronte ai problemi esistenziali si preferisce chiudere gli occhi: non è stato così per Yusuke Takagi (Tokyo 1979, vive e lavora a Yokohama). Affrontare attraverso il mezzo fotografico la propria storia personale, con una gamma di emozioni affluite con l’accettazione della patologia del padre alcolista, nel momento in cui gli è stata diagnosticata una demenza alcolica derivata da un’atrofia cerebrale causata da anni di consumo di alcool, è stato per lui una forma terapeutica.
Dal progetto iniziato durante un workshop a Tokyo con l’editor Yumi Goto è nato il libro Spin, pubblicato da L’Artiere edizioni in collaborazione con Ceiba editions, vincitore del PhotoBook Award 2022 al festival PhotoLux. L’autore ne ha parlato a Parigi, prima del book signing, alla 25/a edizione di Paris Photo, nello stand della casa editrice bolognese fondata da Gianluca e Gianmarco Gamberini. «Il titolo Spin – spiega Takagi – è un termine che indica l’effetto dello stato di ubriachezza, ma nella vita normale è anche associato all’automobile, significa ’fare un giro’. Spin è il punto in cui, quando si beve troppo, si ha la sensazione di essere in preda a un movimento rotatorio. Un circolo che è analogo a quello che nel tempo ha portato mio padre a bere prima solo nelle ore serali, poi di pomeriggio e da lì a mezzogiorno e infine per tutto il giorno».

Nel libro lei esplora la relazione con Hitoshi Takahashi ma non parla mai di sua madre Akiko. Certamente, anche lei ha avuto un ruolo significativo in questa storia. Forse, è l’autrice delle foto dell’album di famiglia che la ritraggono bambino insieme a suo padre…
Anche mia madre è in certo senso alcolista perché beve molto. Ha sempre litigato con mio padre. Non posso dire che sia stata un riferimento positivo per me, ma in questo libro ho preferito focalizzarmi sulla figura di mio padre e i suoi problemi con la dipendenza.

Dalla serie Spin

Quando ha cominciato a lavorare a questo progetto che poi è diventato un libro fotografico?
All’inizio non pensavo che sarebbe diventato un libro, sentivo solo il bisogno di definire i contorni della mia identità e capire anche chi fosse mio padre. Ho fatto molte ricerche sull’essere alcolista, sulle problematiche e conseguenze. Solo successivamente ho immaginato di realizzare un progetto fotografico. Sentivo la necessità di far uscire le mie emozioni e l’ho fatto attraverso la fotografia, dato che questo è il mio campo artistico. Ho cominciato a fotografare vent’anni fa. Sono laureato in Sociologia e successivamente mi sono avvicinato alla fotografia. Il mio progetto precedente è su Fukushima. Mio figlio Kai è nato nel 2013, due anni dopo il disastro nucleare e come padre ero molto preoccupato per il suo futuro. Per questo ho pensato di fare un lavoro sulla società giapponese con lo sguardo di un padre. Kagerou (vuol dire qualcosa di effimero, ndr) è il titolo del libro nato da questa storia che è stato pubblicato nel 2018 da Akina Books.

La fotografia per lei è soprattutto uno strumento per analizzare la società. «Spin», progetto così intimo, è arrivato in un particolare momento della sua vita?
Dopo il disastro di Fukushima ho riformulato il mio modo di fotografare. Prima ero un reporter documentarista. Ho lavorato molto in Africa e in Myanmar sui diritti umani, ma dopo quello che è accaduto in Giappone ho cambiato approccio. Ho scelto una via  più personale alla fotografia.

Il libro Spin a Paris Photo (foto Manuela De Leonardis)

La fotografia è stata una forma terapeutica…
Il dramma di  Fukushima mi ha destabilizzato, ero in ansia, depresso. Mio padre era alcolista e anche io bevevo quasi ogni giorno. Mi sentivo fragile. Assolutamente sì, fare questo libro è stato un atto terapeutico. Si dice che la dipendenza da alcool sia una patologia del diniego ed è stato così anche per me. Fino a cinque anni fa, quando mio padre è stato ricoverato in ospedale, mia madre, mio fratello maggiore e io abbiamo sempre negato che lui fosse malato. Non volevamo accettare un dato di fatto. La mia percezione del problema è mutata proprio dopo i miei studi sull’alcolismo e lavorato al libro fotografico.
È interessante il modo in cui ha messo in relazione le foto dell’album di famiglia, dove è intervenuto segnando un cerchio nero all’altezza del cuore di suo padre e di lei bambino e ragazzo, accanto ad altre realizzate recentemente, molto più oniriche… Il cerchio nero intorno al cuore indica il vuoto e anche uno stato di depressione o comunque sentimenti negativi, la mancanza di qualcosa. La fotografia in bianco e nero è una sorta di memoria incerta. In alcune immagini ho cercato di visualizzare lo sguardo di mio padre quando era ubriaco, un’idea dell’alterazione provocata dalla condizione di ubriachezza. Nelle pagine in cui descrivo il suo cervello, usando anche dei fogli lucidi trasparenti, quella macchia nera è come un demone. Il demone che ha dentro di sé chi è assuefatto all’alcool.

Nelle ultime pagine del libro c’è un testo: «Sono stato costretto a rivivere i ricordi e le sensazioni non metabolizzate che devo aver avuto nella mia infanzia, come sentimenti di costante inappagamento, solitudine, senso di colpa, alienazione, frustrazione senza ragione ed emozioni incontrollabili» Qual è la relazione tra scrittura e immagine?
Avevo bisogno di non nascondere nulla, era fondamentale per me tirare fuori tutto. Dovevo semplicemente capire il perché della necessità di realizzare questo libro fotografico.