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Compagnon, la tradizione è una potente carta moschicida

Compagnon, la tradizione è una potente carta moschicidaGeorges Rouault, "Fille au miroir", 1906, Parigi, Centre Georges Pompidou

Genealogie letterarie In «Antimoderni», Neri Pozza, Antoine Compagnon traccia una linea da de Maistre a Barthes che declina in modi vari e difformi il sentimento di orfanità annidato nel Moderno

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 18 febbraio 2018

In appendice alla riscrittura de La meglio gioventù, nel testo in prosa intitolato «Appunti per una poesia in terrone», Pasolini dichiara ancora una volta ciò che in quel lasso temporale e finale della sua vita andava ripetendo sempre e dappertutto, vale a dire che quando «non si può più andare avanti» è necessario e anzi «bisognerà tornare indietro, e ricominciare daccapo», magari dando fuoco alle polveri di una «lotta comunista per i beni necessari» affinché il mondo possa tornare a essere quello che è sempre stato, «in silenzio» per secoli.
Ma tornare a quando? E tornare dove? Ecco, nel 1973, in un articolo (poi opportunamente fatto confluire negli Scritti corsari) dedicato alle prose di Sandro Penna raggruppate in Un po’di febbre lo stesso Pasolini risponde con chiarezza fulminante per mezzo di un incipit che intendeva risultare, in pieno riuscendovi, assolutamente scandaloso ovvero ambiguo come di solito appare ogni sentimento del rimpianto o della nostalgia in specie se fissata nel recinto di un tempo maledetto: «Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata: non dico i suoi valori – che sono una parola troppo alta e ideologica per quello che voglio semplicemente dire – ma le apparenze parevano dotate del dono dell’eternità: si poteva appassionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione, ché tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita, non sarebbe cambiata. Ci si poteva sentire eroi del mutamento e della novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati: sarebbero giustamente migliorate soltanto le loro condizioni economiche e culturali, che non sono niente rispetto alla verità preesistente che regola meravigliosamente immutabili i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti del corpo di un uomo o di un ragazzo». Quel «bruciare di lacrime» e quella «certa voglia di andarsene da questo mondo, con quei ricordi» rappresentano un atto di accusa e di rifiuto radicale nei confronti del presente e della violenza della realtà – una realtà che «lancia su noi uno sguardo di vittoria, intollerabile: il verdetto è che ciò che si è amato ci è tolto per sempre».
Il nome di Pasolini – che alcuni anni prima, riecheggiando lo sberleffo di Rimbaud, si era definito «più moderno di ogni moderno» e aveva affermato di sentirsi una «forza del passato», che «solo nella Tradizione» risiedeva la fonte del proprio amore – torna alcune volte nel libro intitolato Gli antimoderni Da Joseph de Maistre a Roland Barthes che Antoine Compagnon pubblicò nel 2005 presso Gallimard e che ora, nella traduzione di Alberto Folin, è uscito in italiano per Neri Pozza (pp. 509, euro 28,00). Torna per l’appunto e sebbene frettolosamente, via-Barthes che ne rimase impressionato, grazie alla sua «disperata vitalità» e in generale all’uso reiterato e quasi scandito dell’ossimoro, una figura retorica che certo appare come un punto di forza dell’antimodernità e degli scrittori più significativi e rappresentativi ricondotti nel cerchio di tale costellazione – una costellazione, che nel saggio di Compagnon non intende ovviamente essere esaustiva, e inoltre tutta francese, fatti salvi i necessari riferimenti, di volta in volta, alle stelle obbligate, ossia Schopenhauer, Nietzsche e Spengler, e a partire da due grandi stilisti come de Maistre e Chateaubriand, il primo maestro di memorabili paradossi (in una lettera datata 1817 osservava: «La sola differenza che vedo tra quest’epoca e quella del grande Robespierre è che allora le teste cadevano, mentre oggi girano»), di lucidità e di realismo addirittura luciferini, di tranciante asciuttezza, di sarcasmo e di disincanto (uno specchio fedele e sia pure rovesciato di Voltaire e degli illuministi), l’altro invece turbinoso, romantico, monumentale, effusivo, egolatrico, sgusciante fin quasi a volersi far vanto di mettere in scena una colossale doppiezza e un’ipocrisia sdegnosa di abbassarsi anche solo di un millimetro al di sotto dell’altezza di una delle piramidi ammirate in Egitto da Napoleone, il solo degno di dirsi suo antagonista.
Quella che Compagnon esamina, nella prima parte del volume (intitolata Le idee), è una folta teoria di nomi che si intrecciano e si rincorrono dentro uno schema che l’autore suddivide in sei capitoli, che sono poi i nuclei tematici sui quali poggiano la natura, la pratica letteraria, la polemica, la resistenza antimoderne: «Controrivoluzione», «Antilluministi», «Pessimismo», «Peccato originale», «Sublime» e «Vituperazione» (l’utilizzo dell’invettiva sul presente). Chiusi in una o più di queste caselle ci stanno controrivoluzionari, conservatori, tradizionalisti, reazionari, ultra cattolici, peccatori impenitenti, snob e dandy. Si va, tanto per dire, dal grigio, polveroso e onesto Louis de Bonald al coloratissimo e infiocchettato Barbey d’Aurevilly. O dal frate predicatore Lacordaire a Baudelaire, l’inventore stesso della nozione di modernità (perché sappiamo che per opporsi alla modernità bisogna averla attraversata, lasciandosene lacerare). Compagnon, dopo avere osservato quanto spesso il sentimento antimoderno si accompagni all’audacia letteraria, ha buon gioco nel sottolineare un dato di fatto che oggi appare ancora più vero e definitivo: «Quasi tutta la letteratura francese dei secoli XIX e XX preferita dalla posterità è, se non proprio di destra, quanto meno antimoderna. Con il passare del tempo, Chateaubriand trionfa su Alphonse de Lamartine, Baudelaire su Victor Hugo, Gustave Flaubert su Émile Zola, Marcel Proust su Anatole France e anche Paul Valéry. André Gide, Paul Claudel, Colette – la splendida generazione di classici del 1870 – hanno la meglio sulle avanguardie storiche del primo Novecento, e fors’anche Julien Gracq sul Nouveau Roman». Di certo l’antimodernismo si è rivelato come una potente carta moschicida.
La seconda parte del libro (intitolata Gli uomini) contiene invece sette lunghi saggi, dei veri corpo a corpo di lettura ravvicinata, lenticolare. I primi tre hanno per tema Chateaubriand e Joseph de Maistre dietro a Lacordaire, Antisemitismo e antimodernismo, da Renan a Bloy e Péguy tra Georges Sorel a Jacques Maritain. Gli ultimi quattro, totalmente dentro il fuoco del secolo scorso, sono i più sorprendenti e (si vorrebbe dire) appassionanti: Thibaudet, l’ultimo critico felice, Julien Benda, un reazionario di sinistra alla «NRF», Julien Gracq tra André Breton e Jules Monnerot e, da ultimo, Roland Barthes nelle vesti di san Policarpo, un Barthes triste, solitario y final alle prese col suo ultimo corso sulla preparazione del romanzo che egli non avrebbe mai scritto, chiuso com’era nel lutto e nell’impasse creativa, in attesa di quella vita nova tutta all’insegna dei classici, dopo la definizione che aveva dato di sé come di uno che si pone «alla retroguardia dell’avanguardia», perché «essere d’avanguardia significa essere consapevoli che qualcosa è morto; essere di retroguardia significa amarlo ancora».
Che poi è la differenza che passa tra un reazionario e un antimoderno – e in proposito, per capirlo meglio, basterà consultare La buona causa. Storie e voci della Reazione in Itala (Aragno, pp. L-693, euro 40,00), la recente, bene articolata e utile antologia curata da Stefano Verdino, laddove brillano, e peraltro non di luce propria, il conte Monaldo Leopardi e padre Antonio Bresciani, quest’ultimo reso celebre dai ripetuti sarcasmi di Gramsci nei suoi Quaderni. Ma essi, privi di grandezza, si misurarono non con la Rivoluzione, bensì con il suo fantasma e soprattutto con i loro incubi.

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