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Commedia, una lingua meno rassicurante al nostro orecchio bembesco

Commedia, una lingua meno rassicurante al nostro orecchio bembescoDante, Virgilio e Pier delle Vigne, Canto XIII dell’Inferno di Dante, illustrazione di Gustav Doré (1832-1883)

Filologia dantesca Per decenni abbiamo letto il testo del poema secondo la versione Petrocchi. Adesso due nuove edizioni, l’una a cura di Giorgio Inglese, l’altra di Paolo Trovato, creano interessante sconcerto

Pubblicato circa un anno faEdizione del 24 settembre 2023

Sono passati ormai quasi sessant’anni (1966-’67) da quando il filologo Giorgio Petrocchi confezionò il primo testo critico della Commedia sotto l’egida occhiuta dell’Edizione nazionale delle Opere di Dante. Per quasi un decennio Petrocchi sottopose ad attento scrutinio un’ampia serie di manoscritti antichi del poema e, avvalendosi del cosiddetto metodo genealogico o del Lachmann – il filologo tedesco Karl Lachmann fu tra i primi, a metà Ottocento, a intuirne i principî – tentò di ricostruire le parentele tra i codici e di stabilirne in qualche modo la gerarchia. Ne risultò una genealogia ben ramificata attraverso la quale, risalendo di manoscritto in manoscritto, ci si avvicinava a una versione del poema prossima a quella licenziata dal suo autore a Ravenna, in limine mortis. Per decenni tutti noi, chi più chi meno, abbiamo letto la Commedia di Dante secondo Petrocchi e a quel testo abbiamo assuefatto il nostro orecchio. E per decenni l’idea di rimettere mano all’edizione del poema è parsa a tutti un’impresa tanto immane quanto inutile. Solo allo scadere del ventesimo secolo il progetto di un nuovo testo critico ha iniziato a riprendere forma. L’imminente centenario dantesco del 2021 ha fatto il resto, stimolando a tal punto i filologi che allo scoccare dell’anno fatidico l’impresa può considerarsi in buona parte adempiuta.
Le nuove edizioni critiche del poema sono ora ben due: la prima, curata da Giorgio Inglese, è rimasta nel confortevole alveo dell’Edizione nazionale (Dante, Commedia, a cura di Giorgio Inglese, tre tomi con cofanetto, Le Lettere, pp. 462 + 308 + 318, € 290,00); la seconda è frutto della tenacia indipendente (e impertinente) di Paolo Trovato e di una staffetta di capaci studiosi (Dante, Commedia Inferno, I-II, a cura di Luisa Ferretti Cuomo, Elisabetta Tonello, Paolo Trovato, Padova, libreriauniversitaria.it edizioni, pp. 1392, € 149,90). Il metodo è il medesimo, diversi prospettiva ed esiti.
Un presupposto d’ordine biografico induce a pensare che la prima trascrizione del poema sia avvenuta subito dopo la morte dell’autore, forse nella stessa Ravenna, da parte di un copista di area settentrionale. Secondo Giorgio Inglese, già nel 1322 il figlio di Dante, Jacopo, avrebbe portato con sé una copia del poema a Firenze, agevolandone la diffusione in patria. I più antichi testimoni fiorentini della Commedia – tra la fine degli anni venti e i primi anni trenta del Trecento – verrebbero da lì. Parallelamente a questo ramo fiorentino (identificato con la lettera dell’alfabeto greco «alfa») ve ne sarebbe un secondo (indicato con «beta») rimasto segregato nel nord Italia e rappresentato da codici più tardi. Con qualche aggiustamento è il disegno già tracciato da Petrocchi e ciò, vista la sede, non sorprende. Ne discende un testo – semplifico irreparabilmente – frutto del confronto tra questi due rami della tradizione manoscritta, e occorre dir subito che molto spesso il più tardo ramo «beta» e in particolare il suo più illustre rappresentante (il codice Urbinate latino 366 della Biblioteca Apostolica Vaticana, datato 1352) fa valere la propria autorevolezza a fronte dell’intera tradizione parallela.
Sensibilmente diversa è l’impostazione di Trovato che relega la tradizione tosco-fiorentina, cioè «alfa», a un ruolo del tutto marginale. Si tratterebbe infatti di copie di manoscritti settentrionali la cui genuina facies testuale è ben conservata nei codici di quell’area geografica, ancorché più tardi, come si diceva. Il nuovo testo della Commedia, dunque, si gioca tutto o quasi intorno all’Urbinate e ai suoi confratelli, con poche escursioni. A questo assetto testuale, che rappresenta un deciso rovesciamento rispetto alla prospettiva Petrocchi-Inglese, Trovato è giunto attraverso uno scrutinio amplissimo della tradizione manoscritta, avendo avuto il merito di recuperare testimoni accantonati forse un po’ troppo frettolosamente.
Oggi possiamo misurare la distanza tra le due proposte solo all’interno della prima cantica, l’unica pubblicata da Trovato e dalla sua équipe. Non sono, quanto alle lezioni sostanziali, scostamenti clamorosi. Un solo esempio, per brevità. Lo schianto di un «ramicel» da un «gran pruno», introduce – come tutti ricordano – la sbalorditiva epifania di Pier della Vigna (Inf. XIII, 33-35). Il tronco-notaio prima grida e poi attacca discorso («Da che fatto fu poi di sangue bruno, / ricominciò a dir: “Perché mi scerpi?”»). Inglese ritocca il testo vulgato al verso 35 («ricominciò a gridar: “Perché mi scerpi?”»); «gridar» è infatti parzialmente condiviso sia dalla tradizione toscana sia da quella settentrionale. Trovato, con momentanea deroga allo stemma, va oltre e sceglie «cominciò a gridar», benché «cominciò» sia solo in una fetta della tradizione settentrionale. Sulla scelta pesa il fatto che Dante non fonde mai la vocale tonica finale di cominciò con la vocale iniziale che segue (sinalefe), dunque qui sarà forse da concordare con Trovato per non sfondare i limiti dell’endecasillabo (con «ricominciò a gridar» conteremmo 12 sillabe). Si potrebbe continuare, ma mi fermo.
In alcuni casi, e pur con qualche tentennamento, i due filologi concordano. A Inf. III, 40-41 Dante condanna gli angeli ribelli, indegni tanto dell’abisso infernale quanto del Paradiso: «Caccianli i ciel per non esser men belli, / né lo profondo inferno li riceve». Così Petrocchi. Nella nuova Edizione nazionale invece Inglese vira sul passato remoto «cacciarli» (‘li cacciarono’), e così legge Trovato, adducendo fra l’altro la chiosa che il commentatore Guido da Pisa redasse negli anni trenta del Trecento: «ponit quod celi expulerunt eum» («expulerunt» vale, appunto, ‘li cacciarono’). Ma il bolognese Graziolo Bambaglioli, che commentò anch’egli il poema in latino una decina di anni prima di Guido, chiosa «dicit quod celi expellunt dictos angellos» (‘dice che i cieli cacciano questi angeli’). Ciò significa che a Bologna nel 1324, cioè a soli tre anni dalla morte di Dante, circolava quella lezione.
A mio avviso però non saranno tanto le divaricazioni testuali a increspare la tranquilla superficie del mare dei lettori, quanto piuttosto le novità di carattere linguistico. Qui le distanze crescono sensibilmente. Accettando la tradizione tosco-fiorentina, Inglese segue i manoscritti di quell’area geografica, giudicati più vicini alla lingua appresa da Dante in gioventù (cioè nella seconda metà del Duecento) e forse – ma occorre massima cautela – adottata nel poema. E in effetti alcuni di quei tratti erano già ben presenti nell’edizione Petrocchi (i congiuntivi dea, stea, per dia, stia; la preposizione sanza per il più comune senza; il futuro serà per sarà, e via dicendo).
Tuttavia, se la distanza del fiorentino di tardo Duecento da quello degli anni trenta del Trecento appare oggi ben misurabile, la sua ricezione nei manoscritti settentrionali costringerà a regolarsi di conseguenza, che è quanto ha deciso di fare Trovato, almeno fin dove possibile. In altre parole, se un codice autorevole e copiato nel nord Italia appare incline a conservare tratti del fiorentino arcaico, essi non potranno che imputarsi ai suoi modelli e non già al copista stesso, che nel quotidiano ricorreva a un volgare tutto diverso (tendeva, insomma, a scrivere e pronunciare fogo e pase, non fuoco e pace). L’esito sarà una lingua della Commedia che Giovanna Frosini ha felicemente definito «meno patinata», meno omogenea e perciò meno rassicurante per chi è abituato al testo Petrocchi. Ecco allora fare capolino – piglio un po’ a caso – forme come ristare per restare (Inf. X, 24), o rubello e affini per ribelle (Inf. I, 125), e – a rischio di ortopedizzazione editoriale – io potesse per io potessi (Inf. XXX, 83).
Sconcerto ancor maggiore provocheranno le sequenze pronominali. Anche qui un paio di esempi: a Inf. XXV, 25 sgg. Dante rievoca la leggenda del mostro Caco, caduto sotto le pesanti mazzate di Ercole «che forse / gliene diè cento». La sequenza gliene diè (‘ne diede a lui’), certificata dalle Prose della volgar lingua di Bembo («toscanamente … dopo la voce gli si pon la ne, ché si dice Gliene diedi»), potrà suonare rassicurante (così è in Petrocchi e Inglese) ma forse non è dantesca. Trovato opta per «li ne diè», arcaismo testimoniato dai codici settentrionali, e la sequenza li ne / gli ne è pressoché esclusiva – lo ha documentato Roberta Cella – nei testi fiorentini fin quasi alla metà del Trecento. Nel X dell’Inferno Dante soddisfa il quesito genealogico del vecchio Farinata: «non gliel celai, ma tutto gliel’ apersi»; e poco dopo i perfidi demoni di Malebolge incitano un commilitone ad arpionare il poeta con l’uncino (Inf. XXI, 102): «fa che gliel’ accocchi». A Petrocchi e Inglese, Trovato replica rispettivamente con «non li celai, ma tutti li li apersi» e «fa’ che li l’accocchi». Sono arcaismi nei quali, per Dante giovane, il primo li valeva ‘questi’ (compl. diretto) e il secondo ‘a lui’ (compl. indiretto) e che, se pur urtano l’orecchio bembescamente educato, hanno forse maggiori probabilità di restituirci la lingua del sommo poeta.

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