Comisso, la guerra vista dalle retrovie: vicende di un libro cruciale
Giovanni Comisso aveva l’abitudine di modificare i propri testi, contestualizzandoli in differenti vesti editoriali, oltre ai titoli di alcuni libri (a mo’ di esempio la raccolta di reportage L’Italiano errante per l’Italia, edita da Parenti nel 1937, diventa, con l’aggiunta di nuovi capitoli, La Favorita per Mondadori nel ’45, mentre Viaggi felici, licenziato da Longanesi nel ’66, presenta un altro contenuto rispetto all’eponimo volumetto garzantiano del ’49). Inoltre il narratore apportava una serie di correzioni spesso non troppo funzionali al progetto di volta in volta affrontato. Rolando Damiani, curatore insieme a Nico Naldini delle Opere («Meridiani» 2002), asseriva: «Comisso è assalito da incertezze che lo spingono a rimaneggiare anche senza particolari ragioni». Numerosi gli esempi in cui riesce nel progressivo intento di peggiorare taluni passaggi al mero scopo di non incorrere in dialettismi o modi di dire considerati antiquati. Con simili presupposti anche il lettore più smaliziato perde la bussola, disorientato da una mole di scritti migranti da un contesto editoriale all’altro.
È doveroso fare questa premessa prima di affrontare Giorni di guerra (pp. 256, € 20,00), riedito ora da La nave di Teseo, con prefazione di Paolo Di Paolo, postfazione di Benedetta Centovalli e una nota di Giacomo Carlesso, nell’ottica della sistematica riproposta dei singoli titoli dello scrittore trevigiano. Si tratta infatti di un lavoro in fieri, procedente per graduali approssimazioni, in cui l’autore si propone, attraverso le numerose varianti, di arrivare a un’edizione ne varietur che lo soddisfi pienamente.
Considerato da Mario Isnenghi «uno dei più bei “libri di guerra” della letteratura del Novecento» e da Mario Soldati «uno dei suoi libri più belli, forse il più bello in assoluto», Giorni di guerra, nonostante l’appellativo di «romanzo», è una cronaca sui generis degli avvenimenti svoltisi nell’arco di cinque anni (dal 1914 al 1918) durante gli spostamenti compiuti dall’autore in qualità di addetto al Genio telegrafisti in varie località del Friuli, del Grappa, del Montello. Ad attirare Comisso, più che gli eventi bellici, sono «le cose e gli uomini nella loro elementare verità», come rilevava Geno Pampaloni. La prosa di Comisso, nonostante sia animata dalla tendenza a «violare la sintassi» facendo ricorso a una lingua «rigorosamente paratattica, sincopata» (Centovalli), si configura con un’immediatezza e una felicità espressiva conosciute, in epoca moderna, forse dal solo Palazzeschi novelliere. Scrive con la stessa leggerezza con la quale respira. Ma, a questo proposito, Raffaele La Capria ha messo in rilievo come lo «stile dell’anatra», valevole anche per Comisso, consista nel lavorio invisibile delle zampette sul filo della corrente affinché l’animale nuoti apparentemente senza sforzo.
Giorni di guerra ebbe un iter piuttosto complesso. Uscì originariamente da Mondadori nel 1930 quale secondo numero della collana «I romanzi della guerra», inaugurata da La questione del tenente Grischa di Arnold Zweig mentre il titolo successivo fu Ritorno sul Carso di Luigi Bartolini. In copertina figurava un disegno del pittore Bruno Santi, riproducente il volto stilizzato di un fante con elmetto su fondo rosso. Il volume, comprendente testi composti tra il ’19 e il ’28, si avvaleva di cinque parti indicate con numeri romani e provviste di titolo. Venne accolto positivamente dalla critica, anche se non mancarono esiti polemici. Il riferimento è agli interventi di Paolo Monelli ed Ettore De Zuani, i quali rimproverarono all’autore di aver narrato la guerra in qualità di «semplice telefonista del Genio». Come a intendere un imboscato, un privilegiato, avulso dallo «spirito trincerista» riconducibile all’operato, spesso tragico, di fanti e alpini. Monelli considerava infatti la sua esperienza «più di bivacco che di trincea». Gli veniva inoltre contestato il fatto di riportare episodi poco edificanti della ritirata di Caporetto. Prese le sue difese un altro reduce, Giovan Battista Angioletti, che, in un elzeviro apparso sull’«Italia letteraria» dell’8 febbraio 1931, opportunamente riprodotto nel florilegio critico in appendice, ricostruiva la querelle, sostenendo che Comisso si era limitato a raccontare con estrema onestà e verosimiglianza «certi aspetti della guerra, ed anche delle retrovie».
Giorni di guerra venne ristampato, con l’aggiunta di quattro nuovi capitoli, nel 1952 nella «Medusa degli Italiani» di Mondadori, collana in cui era apparso qualche anno prima il romanzo Capriccio e illusione. Inaugurò infine le «Opere» di Comisso, cadenzate da Longanesi in quattordici volumi tra il ’61 e il ’74, senza tuttavia adempiere all’intento originario di raccogliere l’opera omnia. Furono infatti esclusi titoli importanti come Il mio sodalizio con De Pisis, edito da Garzanti nel ’54, o Il porto dell’amore, pubblicato a proprie spese presso la Stamperia Vianello di Treviso nel ’24, in cui rievoca, in forma ancora acerba, la campale esperienza fiumana e l’amicizia con il funambolico aviatore Guido Keller. Giorni di guerra era l’opera cui Comisso si dichiarava più affezionato, decisiva nel fargli intraprendere la carriera di scrittore, fortemente invisa ai genitori che lo sognavano avvocato. Questi ultimi osteggiarono la diffusione della plaquette d’esordio Poesie, edita dalla Stamperia Zoppelli di Treviso nel 1916, a cura di Arturo Martini cui si deve anche il ritratto xilografico dell’autore allegato, apprezzata dal sodale Arturo Onofri (all’amicizia tra il grande scultore della Pisana e Gino Rossi è dedicato il romanzo I due compagni).
Nelle «Opere» longanesiane confluì dunque la nuova versione riveduta e corretta, risolta in un ordinamento annalistico in cinque parti. Un’ulteriore revisione fu effettuata per la ristampa del ’65, poi confluita nell’«Oscar» dell’80, arricchito dall’introduzione di Isnenghi, e nel summenzionato «Meridiano». Si tratta, sic et simpliciter, della versione definitiva qui adottata. Il libro recupera molti passaggi di lettere inviate dal fronte ai genitori, come ebbe modo di segnalare Luigi Urettini, secondo il quale «Comisso può godere della guerra “come avventura” solo perché ne sta lontano, perché la vede, letteralmente, “col cannocchiale” dalle retrovie, e perché non ne soffre i disagi», confermando implicitamente le riserve avanzate da Monelli e De Zuani. La lettera spedita il 23 giugno 1915 sembra una paradossale dichiarazione di poetica futurista, in quanto l’autore sostiene che la «guerra è bella perché racchiude tante e tante emozioni e spettacoli che cento anni di vita in pace non ve li offre, è tutta movimento, energia, rumore, giovinezza, è insomma la radice quadrata della vita». Ma rimane sostanzialmente critico il suo atteggiamento nei confronti della retorica e della demagogia sottese all’evento bellico: si veda il commovente episodio, già stigmatizzato da De Robertis, del condannato a morte portato dai commilitoni a seggiolina d’oro. Non a caso il libro sarà osteggiato dal regime per la totale mancanza di elementi agiografici.
Nell’appendice critica la recensione dell’«Italia letteraria» del 2 novembre 1930 non è di Ezio Raimondi, come erroneamente riportato a pag. 214, all’epoca appena seienne, ma di Giuseppe Raimondi (si veda l’articolata nota a Giorni di guerra allestita da Damiani nelle Opere, con il relativo riferimento a pag. 1650). Significativo è «il temperamento, caldo ma pacato, come certo carattere della pittura veneta» che, in qualche modo, richiama la «grazia» di cui parla Pancrazi, svincolata totalmente dal «pericolo estetizzante, come un vago dannunzianesimo» presente nel Porto dell’amore, ancora impregnato di superomismo nietzschiano e di derive paganeggianti e oltranziste (ma già il successivo Gente di mare del 1928 virava in direzione di una prosa sensuale e, al contempo, scorrevole, contrapponendosi alla realtà miserrima dei pescatori chioggiotti). Il «disperdersi, quasi il dissolversi nei particolari» rilevato da Pancrazi non inficia la profetica asserzione del critico toscano: «A dispetto del calendario, Comisso ha continuato ad avere vent’anni».
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