Guardarsi, conoscersi, inventarsi: nel paradigma della rappresentazione di se stessi, personalità e creatività negoziano un’identità che può diventare specchio dell’identità sociale. «Posso cambiare attraverso lo scambio con gli altri senza smarrire o disperdere il senso di me stesso», affermava Édouard Glissant. L’autore della Poetica della Relazione è una fonte d’ispirazione per Larry Ossei-Mensah, curatore della collettiva How Do You Want to See Yourself alla galleria Anna Marra di Roma (fino al 25).

AL SUO TERZO APPUNTAMENTO nella capitale, Ossei-Mensah attraverso i lavori di dieci artiste e artisti afroamericani, africani e della diaspora – Adegboyega Adesina, Kwesi Botchway, Cydne Jasmin Coleby, M. Florine Démosthène, Jammie Holmes, Jerrell Gibbs, YoYo Lander, Stephen Langa, Joiri Minaya, Lauren Pearce – riflette sul concetto di blackness e sul suo significato legato a identità e appartenenza in una chiave che implica anche la declinazione della consapevolezza e dell’orgoglio dell’essere neri. Una mostra che non è solo «una celebrazione dell’identità – spiega – ma un invito all’azione, sfidandoci a reimmaginare le possibilità di rappresentazione nel panorama globale di oggi».

IL TITOLO How Do You Want to See Yourself (come vuoi vederti) deriva da una conversazione che il curatore aveva avuto con l’artista afroamericano Derrick Adams. «Gli chiesi perché usasse la rappresentazione di sé nella sua pratica artistica e tra le risposte c’era anche quella del desiderio di avere il controllo su come veniva visto dagli altri: le proprie immagini erano un riflesso della sua identità, famiglia, comunità, storia». Un punto di vista che Larry Ossei-Mensah ha trovato interessante e a cui ha dato seguito con il coinvolgimento di altre artiste e artisti nati tra il 1971 e il 1998 a cui ha posto la stessa domanda.

DA LOS ANGELES a Johannesburg, da Accra a Cleveland, dalle Bahamas a Lagos le risposte, tra prospettive e linguaggi, sono state varie. Così come le tecniche che oltre a pittura a olio e acrilico, vernice spray e carboncino, vedono l’impiego di fotografia e collage con «mylar» (pellicola in poliestere) marmorizzata, glitter e carte di diversi tipi. Al centro, c’è sempre il corpo umano: una visione antropocentrica da «Umanesimo black» in cui la rappresentazione figurativa è l’elemento di raccordo anche con il patrimonio culturale. In particolare, viene affrontato il tema della bellezza non tanto come ideale sintesi di sublimazione dell’umano, piuttosto come traccia dei suoi cambiamenti fisici e simbolici, come nei collage di Yoyo Lander in cui i nudi femminili (Alycia e Morgan, 2023) esprimono tanto la forza quanto la vulnerabilità dei soggetti.

LA TRADIZIONE del ritratto nella pittura occidentale è un referente anche per il ghanese Kwesi Botchway che introduce nelle sue opere una citazione che proviene dalla propria cultura: la scarificazione. In Ghana e in altri paesi africani o continenti come l’Oceania, viene praticata un’incisione ornamentale sulla superficie della pelle del volto e di altre parti del corpo: le cicatrici sono un valore estetico aggiunto, ma soprattutto il manifesto identitario di appartenenza al clan, status sociale, etnia.
C’è poi chi affronta la dialettica di visibilità e invisibilità del corpo come Joiri Minaya nelle fotografie della serie Container (2015) e Away from prying eyes (2020) in cui il corpo femminile attraversa il paesaggio che lo circonda in un camouflage che esprime la tensione tra essere e apparire, naturale e artificiale.
Un’inquietudine che è dirompente nei colori vibranti usati da Lauren Pearce in Doing What I thought I couldn’t (2024). Nell’esplorare le proprie emozioni, l’artista di Cleveland insiste sulla determinazione delle due figure femminili protagoniste della propria vita. In questa rappresentazione c’è il ricordo delle «paper doll», bambole di carta da ritagliare e vestire con abiti anch’essi di carta. Qui la versatilità e l’intercambiabilità diventano sostantivi femminili.