Cultura

Come sopravvivere all’afasia dell’orrore

Come sopravvivere all’afasia dell’orroreJake and Dinos Chapman, «The Disasters of War», 1993

MATERIALI Si può istituire una zona di protezione di fronte agli atti insensati della Storia? Un’anticipazione dall’editoriale della rivista «Psiche».

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 14 gennaio 2017

Che cosa accade in un individuo, in una popolazione, in una cultura o in una comunità esposta al dramma della guerra è una questione non certo ovvia, ma non affatto sconosciuta all’esperienza umana, alla riflessione politica, filosofica, etica, psicoanalitica. Il che tuttavia, come sappiamo, non rende quella medesima esperienza capace di difenderci dalla passione per la guerra, dal godimento dell’orrore, dalla partecipazione furiosa alle barbarie, trasformandoci in eventuali colpevoli di sterminio, violazione dei diritti umani, torture.

Che cosa accade in quella spesso infinita zona di transizione che definisce il dopo guerra e in cui – oltre che a ricostruire, rimpiangere i morti, fare i conti o meno con il passato recente e delineare nuove organizzazioni di vita – si tenta di riappropriarsi di spazi, gesti e immagini sottratte dal tempo e dalla storia che ci aveva preceduti, mediante la creazione di nuove rappresentazioni, configurazioni corporee, affettività, è altrettanto oggetto di ampia riflessione. In che modo inoltre tutto questo orrore si deposita nello psichico di una generazione, si tramette ad altri che giungeranno, mediante riapparizioni sintomatiche, risorgenze ideologiche o di pensiero che ritenevamo superate, non è, neanch’esso, certo sconosciuto all’indagine psicoanalitica. (…)

IN CHE MODO RIUSCIAMO a istituire una zona protettiva per permettere allo psichico di esercitare le sue funzioni trasformative, quando, intorno a noi, l’insensatezza di una parola, l’impossibilità di sospendere il giudizio, la paura, l’oscillazione improvvisa fra l’angoscia di essere uccisi o di uccidere si impossessa degli esseri umani, rendendoci disorientati, come scrive Freud in Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte di fronte alla guerra del 1915, o sconvolti dalla comparsa della possibilità di una distruzione totale? Come osserva Freud in quel saggio, è la stessa esperienza della morte a mutare radicalmente di segno, dalla sua casualità al suo accadere infinite volte nello stesso giorno sui campi di battaglia, e questa radicalità, questa impossibilità di essere messa da parte, è un esempio rilevante di trasformazione.

Forse, non casualmente, i meglio attrezzati per «sopravvivere in tempo di guerra» appaiono sovente i pazienti psicotici, troppo impegnati nelle loro guerre personali, nei loro combattimenti quotidiani, del tutto indifferenti ai morti o alle stragi, interessati piuttosto ad inghiottire la Storia nella propria personale questione. Pazienti già da sempre troppo «in guerra» per poter dare importanza alle guerre degli altri che eventualmente giungono solo per confermare quella che si conduce, in maniera più o meno privata, o che rischiano di farli distogliere da ben altri impegni.

Ciò non toglie ovviamente che quel rifiuto, quel diniego, quella indifferenza per la rottura del mondo non si accompagni allo stesso tempo a una frattura delle frontiere capace di farci vedere, lo scriveva Canetti in Masse e potere, uno Schreber come un anticipatore del tempo e degli orrori del nazismo, pensando la follia di un soggetto come follia-mondo, follia del tempo. (…)

SI PUÒ TENTARE di fermare gli accadimenti insensati della storia, ad esempio protestando contro l’esilio dei bambini, come fece Winnicott durante la prima evacuazione dei bambini da Londra nel 1939 (82700 furono quelli mandati via in famiglie d’accoglienza o in centri, con esiti dolorosi se non catastrofici sui bambini medesimi e sulle loro famiglie).

Nella lettera al British Medical Journal del 16 dicembre 1939, Winnicott, Bowlby e Miller scriveranno, in maniera preveggente, che se quello che loro proponevano era esatto, l’evacuazione dei bambini senza le loro madri avrebbe determinato un aumento importante della delinquenza giovanile nei futuri dieci anni e protestavano così contro questa evacuazione /deportazione.

Non si trattava solo, come è evidente, di una diversa lettura delle forme di sopravvivenza, ma di una necessità di prendere in considerazione, nei momenti di guerra e di catastrofe collettiva, l’esigenza di mantenere un legame, una relazione che permetta di evitare lo sfaldamento dell’essere psichico collettivo. Si può cercare di istituire una dimensione giuridica della guerra, attraverso il suo contenimento, la distinzione di guerra giusta e ingiusta, o degli attori giuridici che ne possano legittimamente decretarne l’inizio, oppure esorcizzarla sempre e comunque.

Si può proporre, come fece Bion, cosa praticamente inaccettabile in un ambiente militare, dei «gruppi senza leader», tentando di inserire la sofferenza individuale in una presa in carico gruppale per ricostruire un legame sociale andato perduto. O collezionare immagini di guerra, nel silenzio delle parole, nell’afasia che la guerra induce, come hanno fatto Brecht con l’ABC della guerra, o Warburg con Mnemosyne, cercando di demistificare la presunta chiarezza delle immagini, dislocando grazie agli epigrammi e alle didascalie, in Brecht, o grazie alla messa in relazione di ciò che sembra invece lontanissimo, in Warburg, la retorica di ciò che appare dotato di un unico senso (…)

ANALOGAMENTE: andare in cerca dei frammenti, dei resti, dei residui di ciò che la guerra produce, per tentare una qualche ricomposizione dell’infranto, del perduto per sempre, non solo per dare «sepoltura» ai morti, ma per mantenere viva una memoria, un’identità, la possibilità medesima della testimonianza, scattando magari una furtiva e sfocata foto dello sterminio in atto nel campo di concentramento, come segnalava Didi-Huberman in Immagini malgrado tutto. Ridare, mediante la letteratura (si pensi a L’Uomo che cade di Don DeLillo o al finale di Molto forte, incredibilmente vicino di Safran Foer), dignità ai jumpers, alle persone che si gettarono dalle Torri Gemelle per sfuggire al fuoco, oggetto di una sorta di diniego culturale (nel rifiuto del suicidio, nella presenza conflittuale di problemi assicurativi relativi a una morte «indiretta», nell’oscenità delle foto non coperte dal fumo e dalla polvere, che permettono di astrarre una figura dall’orrore di massa e renderlo dunque in qualche modo più individuale).

Questo esempio è illustrativo però, oltre che di una specifica questione, del problema più generale che appare nella questione di cosa accade al pensiero in tempo di guerra e che potremmo ridefinire come la relazione profonda fra possibilità di pensiero e ed esperienza corporea. Forse, mai come nella guerra moderna questa dimensione ha assunto una rilevanza così assoluta.

LO NOTAVA GIÀ ADORNO nei Minima moralia quando scriveva che l’inadeguatezza dell’organico di fronte all’inorganico della guerra, del corpo dinanzi all’industria della guerra, ai materiali della guerra, rendeva impossibile la stessa esperienza del soldato, spazzato via senza aver avuto nemmeno il tempo di guardare in volto il nemico. (…) Mentre da una parte bombardamenti, droni, mine, attentati kamikaze rendono il corpo un residuo minimale, un frammento senza più identità, senza più valore di reliquia, di sacralità, dall’altra parte si scatena una realtà o un immaginario che mettono paradossalmente il corpo in primo piano, seppur messo a morte, bruciato, torturato, sgozzato.

Sono i corpi dei prigionieri dell’Isis, i corpi dei prigionieri fotografati in pose umilianti nella prigione di Guantánamo, i corpi occultati delle donne costrette a seppellirsi nelle vesti nere dei burka. (…) Cosa fare, allo stesso tempo, del corpo dei jihadisti morti, cosa fare del corpo dell’eroe, come ricostruire un corpo collettivo non eroico (si pensi, ad esempio, all’operazione di decolonizzazione compiuta dal cinema neorealistico italiano del corpo eroico del fascismo)?

 

 

Scheda

Dai traumi delle città al dialogo giuridico

Dopo «Distruggere», il secondo numero di «Psiche. Rivista di cultura psicoanalitica» (il Mulino) chiude il 2016 e apre il nuovo anno – in uscita da oggi – con «Il pensiero in tempo di guerra». Il volume presenta interventi di studiosi di diverse discipline in dialogo con la psicoanalisi tra i quali Khair Badawi sul «Traumatismo di una città»; André sugli attentati in Francia; Vargas sul ruolo della violenza nel plasmare la soggettività; Capezzone sulla «Prima crociata e la memoria storica araba»; Nicasi sugli psicoanalisti e la guerra; Armogida su «Alcuni aspetti della guerra e il pensiero greco»; Bettini indaga su «Cosa dicono davvero i racconti di guerra»; Diatkine prende spunto dal dialogo sulla guerra tra Freud e Einstein; Risoldi guarda al trauma; Sirianni ragiona sul pensiero giuridico e la guerra; Pinelli sull’odierna inflazione della definizione di guerra; Ambrosiano su Armin Wegner e il nazismo; Perucchetti la musica nella Grande Guerra. Interventi anche della scrittrice Dacia Maraini e dello scrittore Erri De Luca.

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