Come si ricostruisce il Pd. Quello che le primarie non dicono
Partito democratico Ai gazebo c’è stato un duplice movimento: la smobilitazione di una fetta di elettori legati al sistema Renzi e l’afflusso di ex elettori Pd che hanno visto l’occasione di un segnale. L’intero statuto avrebbe bisogno di una radicale riscrittura. Per fare tutto ciò occorre un vero congresso, o qualcosa di simile: quello che il voto del 3 marzo non è stato
Partito democratico Ai gazebo c’è stato un duplice movimento: la smobilitazione di una fetta di elettori legati al sistema Renzi e l’afflusso di ex elettori Pd che hanno visto l’occasione di un segnale. L’intero statuto avrebbe bisogno di una radicale riscrittura. Per fare tutto ciò occorre un vero congresso, o qualcosa di simile: quello che il voto del 3 marzo non è stato
Il Partito Democratico è giunto alle sue primarie sull’orlo del collasso: al bivio tra dissoluzione e sopravvivenza. L’esito è certo un segno di vitalità, ed è comprensibile un diffuso senso di sollievo; ma sono davvero fuori luogo alcune ritorsioni («avete visto? non siamo morti!»): le premesse che avevano condotto ad un possibile “finale di partito” sono tutte ancora all’opera, e tocca ora alla nuova leadership il compito arduo di provare a rimuoverle.
CON NOTEVOLE RITARDO, e scarsa trasparenza, non sono stati ancora resi noti i risultati definitivi. Al momento, l’unico comunicato ufficiale ha solo informato di circa 1,6 milioni di votanti (rispetto all’1,8 del 2017): in questo caso vi sarebbe comunque stata una flessione di circa il 10% rispetto rispetto alle primarie del 2017, (che avevano visto già dimezzato il numero dei votanti, rispetto al 2012). Sarà importante analizzare la distribuzione regionale del voto; ma intanto si può ipotizzare un duplice movimento: da una parte, la smobilitazione di una fetta di elettori legati al sistema di potere raccolto intorno a Renzi (l’effetto “carro del vincitore”, ma alla rovescia); dall’altra parte, l’afflusso di nuovi elettori, in gran parte ex-elettori del Pd, sfiduciati e disillusi, ma che hanno visto in queste primarie un’occasione da cogliere per mandare un segnale, scegliendo quel candidato che si caratterizzava per una più netta discontinuità rispetto al passato. Un effetto, occorre aggiungere, che nasce anche dal fallimento della galassia a sinistra del Pd, nei due anni che abbiamo alle spalle, incapace di offrire una risposta al periodo più acuto di crisi del Pd e di prospettare un qualche credibile percorso di costruzione di un nuovo partito.
LA PERCENTUALE MOLTO ALTA raccolta da Zingaretti nasce dal combinarsi di queste tendenze, oltre che dallo spostamento nel suo campo di un’area di personalità politiche (e dei loro referenti locali) che in passato erano organici alla maggioranza renziana (e che potrebbero costituire, specie a livello locale, una pesante zavorra per il nuovo segretario).
ANCHE QUESTE PRIMARIE confermano la logica plebiscitaria che caratterizza il regime interno del Pd: un partito che affida la scelta del leader ad una procedura di investitura diretta fondata essenzialmente su un mandato fiduciario personale, non sulla discussione e approvazione di una ben definita piattaforma ideale, politica e programmatica. E, com’è nella logica di questo modello, si procede sulla base di “ondate” di opinione. Il Pd è un partito dai confini labili: non vi è un corpo associativo che possa esercitare una propria sovranità democratica. Vince chi riesce ad attivare una più ampia “circolazione extra-corporea”: e non c’è dubbio che, in questa occasione, sia stato Zingaretti a porsi nella migliore condizione per attirarla.
ALLA LUCE di tutto ciò, sono immani i compiti che si trova dinanzi il nuovo segretario: una buona premessa è il suo atteggiamento inclusivo (persino un po’ troppo ecumenico). Ma è evidente che non basta. Rimangono da affrontare due interi campi di lavoro: la ridefinizione del profilo ideale e politico del partito e un completo ripensamento del modello di partito, della sua democrazia interna e della sua organizzazione. Non mi soffermo sul primo punto; basta solo porre un interrogativo: si avrà il coraggio di criticare e rovesciare quelle scelte politiche che sono alla base del disastro elettorale (lavoro, scuola, riforme costituzionali, …)?
SUL SECONDO PUNTO, l’opera di ricostruzione non può che essere radicale. Ora si sprecheranno gli appelli ai tanti elettori che hanno partecipato alle primarie: venite al partito, dateci una mano! Ma a fare che? si può facilmente obiettare. Il Pd è un partito, per come è fatto e come lavora, che possa valorizzare veramente un impegno militante? È in grado il Pd di fare di quegli elettori un fattore di forza organizzativa? O quegli elettori, dopo il rito dei gazebo, torneranno tristemente alla loro solitudine? C’è qualche idea innovativa, al riguardo? Il nuovo segretario, ad esempio, pensa di metter mano seriamente a quell’«albo degli elettori», pur previsto dallo statuto, facendone una base associativa allargata da coinvolgere nelle attività ordinarie del partito? La nuova leadership ha una qualche idea su come rianimare un circuito vero di partecipazione democratica nella vita del partito? Come si intendono i forum che Zingaretti ha evocato nel suo primo discorso: saranno luoghi di elaborazione realmente connessi con i processi di formazione delle decisioni politiche e degli orientamenti programmatici? E soprattutto, come si pensa di contestare le altrui mitologie della democrazia diretta, se non si rovescia quella logica della disintermediazione (che è il cuore della logica populista dominante) che ha caratterizzato il modello di partito adottato inizialmente dal Pd e poi portato alle estreme conseguenze da Renzi?
INSOMMA, NON BASTA mettere in naftalina la disposizione statutaria che identifica segretario e candidato premier: è l’intero statuto che avrebbe bisogno di un’opera radicale di riscrittura, ed è il complesso delle pratiche correnti che andrebbe rovesciato. Per fare tutto ciò, forse occorre un vero congresso, o qualcosa di simile: quello che queste primarie non sono state.
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