Come si attraversa il tempo altro – quello della riedificazione del senso – a fronte dello straziante disastro della morte e del silenzio sgomento che ne consegue? In quale aldilà la poesia sola sa, sciamanicamente, individuare un ipotetico varco, disseminare di tracce e senhal un minimo sentiero per il ritorno a se stessi? Quanto tempo occorre al dolore per dirsi? Quale la distanza che separa il congedo ultimo dalla scrittura? Petrarca sposta la nostalgia per l’amata secondo un percorso che recupera il passato e lo restituisce, come impossibilità del ritorno, nel presente senza tempo della scrittura. La nostalgia si sposta nella struggente meraviglia del poeta che trascrive la malinconia della memoria. Dante sposta l’immagine dell’amata nel futuro che la scrittura rende possibile, nel suo farsi immaginifico e numinoso, verso un nuovo incontro da meritare. Laura è emblema luminosissimo del passato che non torna. Beatrice è guida futura e modello mistico di un’ipotesi senza tempo.

Marcello Marciani sconta e racconta la sua consapevolezza nostalgica nel presente incondiviso del deserto pandemico, appena ieri, nel suo Sottovuoto. Cinquantadue sonetti (Moretti&Vitali, pp. 126, euro 14, prefazione di Elena Maffioletti, annotazioni metriche di Francesco Paolo Memmo)

L’elaborazione del lutto prevede e impone una sua scoscesa ritualità, durante anni, un percorso di trasformazione e raffinamento lungo il quale l’assenza diventa essenza. Anni di emozione muta, forse rimozione, fino a che un testo commissionato, nel 2019, sul mistero della Gioconda, riapre la ferita, le consenti di dirsi.

Ecco allora che i tempi del pandemico vuoto collettivo si fanno cassa di risonanza – e di ascolto profondo – del corrispondente vuoto esistenziale dove la compagna manca, per sempre. E “la memoria amorosa diventa (anche, aggiungiamo noi alla precisa annotazione) indagine etica sul presente”.

In effetti, di quale io si tratta in questo libro? Di quale voce? In quale voce l’io rima così arditamente con tu? La voce impossibile (e dunque certa) della poesia come sola approssimazione praticabile all’ignoto. Dove saltano completamente le “convenzioni dello spazio-tempo” per lasciare che la lingua di un dialogo intimo ininterrotto si tenti nel tessuto ritmico e musicale, di questo “antico” esperimento, anche formale, che l’uso del Sonetto rende possibile lungo tutta la migliore tradizione lirica italiana. Essendo il tentativo quello di ricondurre ai termini riconoscibili della parola i confini (e lo sconfinare) del dolore.

Sappiamo bene che le forme del Sonetto sanno storicamente accogliere e disciplinare le differenti declinazioni dell’amore e del dolore. E la forma Sonetto ha aiutato molto Marciani nel suo percorso di ricerca e restituzione (al lettore) di un sapere emotivo complesso e forte. La contrainte crea disciplina, non consente divagazioni, si fa anzi vincolo stilistico e esistenziale, costringe a muoversi in una gabbia metrica che consente sì di tentare il volo ma con una sola ala, come ci ricorda Paul Klee (pittore che Marciani ha scelto, col suo Angelo che cerca ancora, a interpretare l’immagine di copertina) in un passaggio splendido di Teoria della forma e della figurazione:

“Questa capacità dell’uomo di spaziare a piacimento con lo spirito nel terreno e nel sopraterreno, in antitesi con l’impotenza fisica, costituisce la più profonda tragedia umana: la tragedia della spiritualità (…) l’uomo è per metà prigioniero e per metà alato.”

Ecco allora l’incandescenza creativa del linguaggio riconoscersi, disciplinarsi e mettersi alla prova in una pluralità di registri agiti in riva al silenzio, ospiti del quotidiano, come ampiamente riconosciuto anche nella attenta e partecipata prefazione di Elena Maffioletti che giustamente rileva come la “lingua usata: fitta di elementi gergali, neologismi e dialettalismi” si trasferisca sulla pagina nella articolata “varietà degli schemi e delle infrazioni sperimentali cui la forma classica del sonetto viene sottoposta.”

E come altresì magistralmente illustrato dall’informatissimo saggio di Annotazioni metriche a cura di Francesco Paolo Memmo che, reso partecipe dallo stesso autore, in corso d’opera, del libro nel suo farsi, prende in esame con ammirabile accuratezza ogni singolo testo, chiosando, sviscerando e collegando fra loro persino le più arcane istanze compositive e strutturali dei Cinquantadue sonetti che compongono la raccolta. A riprova del fatto che la ricerca amorosa della “oltranza” di natura esistenziale e metafisica che Marciani mette in campo non poteva accontentarsi di niente di meno che d’una vera e propria sfida “classicista” e sperimentale al tempo stesso, di una scelta assoluta come quella del Sonetto e della grande perizia tecnica che questa richiede.

E’ proprio questa forma di sperimentazione classica, del resto, che consente all’autore di agire la sua intenzione poematica e di inanellare una sequenza di testi che, secondo la bella immagine di Elena Maffioletti, “tracimano” uno nell’altro, in un intrecciarsi di elementi naturali e spiritualità non addomesticata, dove i non pochi riferimenti, anche coloristici e mimetici, al mistero muto della vegetazione interagiscono con momenti musicali di straziante intensità, a testimoniare l’autenticità di un abbandono interiore che di verso in verso non cessa di dirsi e significarsi innamorato. Poiché anche l’addio, concetto e condizione, va comunque accudito come cosa viva.

E basti qui a dirlo, a mo’ d’esempio, il terribile e splendido Sonetto XXXVIII di pagina 62, “Natale”:

Verde smeraldo e grigio perla erano/ le due pellicce eco che sfoggiavi/ schernendoti signora indosso al fasto/ fittizio dei percorsi tuoi invernali./ Verde foresta e grigio argento era/ l’albero che ogni anno riesumavi/ dal fondachetto pronto al rosso impasto/ di luci e nastri accorsi per Natale./ Verde palustre grigio betoniera/ non sono tinte che tu sopportavi:/ pittano oggi un vuoto che devasta./ Quanto verde s’è spento nella sera/ festiva di quest’anno che ci incava/ ma i tuoi colori accendo lungo il vasto/ presepe del tuo altrove: a sprazzi bastano.

“Sonetto continuo e ritornellato, ma con un solo verso di ritornello, in rima col quattordicesimo, come prescrivono gli antichi trattatisti” e come ci ricorda Francesco Paolo Memmo.

L’assenza è una modalità dell’essenza, da riconoscere, esplorare, ascoltare, indagare, invocare, una delle declinazioni del mistero del dolore. La metrica, la regola, la disciplina sono necessarie a dirla, a non cadere una volta di più negli abissi della disperazione e a non indulgere, per contro, a una certa metafisica autoconsolatoria, forse addirittura a danzare lungamente legati con gabbie di corda come certi danzatori contemporanei che solo al momento della verità, nell’incontro con lo sguardo dell’altro, nudi liberano il gesto nella sua più precisa misura.