Il problema dell’intimo e continuativo rapporto tra potere e violenza rimane, per molti aspetti, un enigma irrisolto. Ovvero, è un campo di interpretazioni che non si presta a nessuna soluzione definitiva. Non quella d’ordine moralistico, che risolve le contraddizioni ribadendo preventivamente l’immoralità del primo poiché fondato sul sistematico ricorso alla seconda. Del pari, non quella «realista», che invece propugna l’impossibilità di una diversa via verso l’organizzazione delle società che non sia quella dell’imposizione forzata, deflettendo quindi da qualsiasi intento di trasformazione consapevole e condivisa.

ALL’IDEALISMO della prima ipotesi, infatti, si interfaccia il falso oggettivismo della seconda, che rilegge i processi storici come una sorta di manifestazione dell’immodificabile «natura» umana. In quanto tali, inesorabili nei loro modi di prodursi e manifestarsi, poiché di quest’ultima sarebbero l’obbligata espressione. Il punto di fondo è che nella storia dell’umanità la violenza è al medesimo tempo distruttiva e generativa. Dilacera il già esistente, istituisce nuovi rapporti di forza e, con essi, i differenziali di ruolo tra consociati, ma stabilisce anche i criteri con i quali includere quanti possono considerarsi a pieno titolo cittadini, tali poiché tutelati dai diritti collettivi. Non a caso, nelle vicende novecentesche, è proprio nella figura dell’apolide che si è identificato il livello più basso della condizione umana, in quanto non avendo Stato di appartenenza, non ha nessun diritto che lo tuteli.

È EVIDENTE che in una tale concezione delle relazioni umane, ad essere determinante e la forma Stato-nazione, e con essa il monopolio (incerto) che esercita non tanto sul ricorso alla forza in sé quanto alla violenza legittimata, quella che risulta tale perché accompagnata dall’assenso della maggioranza dei cittadini. Ancora una volta il problema non è il nudo nesso tra potere (come suggello delle diseguaglianze) e violenza (come sostegno di questa asimmetria) bensì il tema della consensualità che si accompagna ai fenomeni di degrado dell’etica pubblica.

Qualcosa di molto attuale, peraltro. Da questo punto di vista, l’adoperare il filtro dell’appartenenza razziale per definire i diritti di cittadinanza non è una prerogativa del Novecento. Già Enzo Traverso e, più in generale, diversi autori hanno indagato i molteplici nessi tra costruzione di un’identità europea contemporanea, la presenza di imperi coloniali e i percorsi di esclusione razzista. La violenza di Stato si inquadra, secondo questo percorso interpretativo, dentro le dinamiche di definizione dell’appartenenza nazionale. Ossia, non ne è uno sgradevole corollario, essendo semmai una radice fondamentale attraverso la quale si stabiliscono gerarchie e domini sociali. Il conflitto che si apre nella modernità è piuttosto quello tra legalità e legittimità. Fino a che punto è lecito, per un organismo sovraordinato alle singole persone, qual è lo Stato, intervenire direttamente sulle esistenze di esse? Quali sono le condizioni che generano un campo di opportunità per chi intenda stabilire il nudo dominio della sua sola volontà? Non di meno, quando si innesca la concatenazione tra eventi delinquenziali da parte di quelle élite che, invece, dovrebbero preservare le condizioni collettive della libera esistenza?

TRA I MOLTI TESTI che si accompagnano all’analisi dell’azione dei poteri criminali nel Novecento, tali non perché prodotto di un’espropriazione della volontà collettiva ma in quanto manifestazione di un lucido disegno di autoaffermazione, si segnala ora il volume di Alex J. Kay, L’impero della distruzione. Una storia dell’uccisione di massa nazista (Einaudi, pp. 446, euro 33). Meritoriamente tradotto in italiano, per la cura di Alessandro Manna, ad un anno dalla sua pubblicazione per la Yale University Press, il testo è un repertorio aperto di quei processi che si intersecano vicendevolmente dentro la dimensione criminogena dello Stato nazista.

L’AUTORE, Senior Lecturer in storia all’Università di Postdam e Fellow della Royal Historical Society, non elenca stragi, massacri, stermini per dare corpo ad una sorta di collage dell’orrore. Semmai il suo impegno è quello di trovare un filo conduttore ai fenomeni della sopraffazione e dell’annientamento nel loro ripetersi con la potenza di un rullo compressore. I dodici capitoli del libro, articolati in aree tematiche e raccolti secondo una scansione cronologica (dall’estate del 1939 alla primavera del 1945), ricoprono pressoché la globalità delle violenze sistematiche operate dai nazionalsocialisti durante una guerra mondiale che era di sterminio.

La loro lettura è tuttavia concatenata, stabilendo connessioni e distinzioni, a seconda dei crimini descritti e della loro funzionalità ideologica ad una specifica prassi politica. Ne emerge il riscontro che nel nazismo sia il tema stesso di ciò che è «vita» a costituire il vero oggetto del potere. In altre parole, cercando di definirsi come antropologia profonda, sulla base del filtro razzista, la Germania di Hitler realizza la più compiuta opera di biopolitica: «quando la salute e la pretesa purezza razziale di un popolo diventano l’obiettivo politico supremo, a esso può ben essere sacrificata una porzione di vita che viene considerata non altrettanto valida e dunque, come fu detto da alcuni, non degna di essere vissuta». La storia dell’umanità, soprattutto quella più recente, viene quindi riletta all’interno di un possente apparato mitologico, la cui carica anti-illuminista – e avversa al pluralismo sociale – costituisce il punto di sintesi di molte pulsioni elette a sistema di governo delle relazioni umane.

LA DIVERSITÀ DEL NAZISMO rispetto ad altre esperienze dittatoriali, più o meno coeve, si inscrive anche in questa logica profonda. Ed il nesso tra potere e violenza, tanto più laddove vincola l’esercizio dell’ordine al ricorso sistematico alla forza contro ciò che è estraneo o alieno alla «comunità di popolo», trova nel rimando alla rigenerazione collettiva il suo momento catartico.

Kay sottolinea come il «trauma» del tardo autunno del 1918, con la sconfitta politica, prima ancora che militare, degli Imperi centrali, sia stato istitutivo di un ampio campo di tensioni irrisolte. La repressione del pluralismo interno alla Germania prima, per poi passare alla persecuzione e quindi all’assassinio sistematico nei paesi occupati, trova quindi un suo filo logico anche in questo retroterra che si nutre, nell’impotenza della politica liberale, del desiderio ipertrofico di estinguere non solo quello che già esiste ma anche quanto era stato, capovolgendo il ricordo del passato. I richiami alla necessità di cancellare l’«onta del ‘18» (con la perdita non solo delle colonie ma anche delle regioni imperiali del Nord, a favore della Danimarca, dell’Est verso la Polonia e la Cecoslovacchia e dell’Ovest nei riguardi della Francia e del Belgio), sono come una sorta di esorcismo collettivo contro il terrore di non costituire più un corpo nazionale unitario.

Quindi, nei confronti del panico da smembramento, non tanto territoriale quanto civile, che attraversa una parte della società tedesca per tutti gli anni Venti. Non a caso i simbolismi e le metafore biologiche sono al cuore del discorso politico nazista, basato sulla riscoperta della «natura» più intima, quella razziale, che non conosce storia poiché non ne ha bisogno, essendo sempre eguale a se stessa. La rigenerazione di una comunità etnorazzista, il vero compito di una politica di espansione e asservimento imperialista, passa quindi attraverso la lotta contro l’obbrobrio della promiscuità tra gruppi, la loro separazione, la distinzione e il plausibile annientamento delle comunità classificate come inferiori.

L’IDEA DI PULIZIA implacabile – sia di natura etnica che civile, rivolgendosi anche contro alcune categorie di tedeschi, a partire dai portatori di disagio psichico – è allora la proiezione di un bisogno di gerarchia sociale, l’unica, secondo questo approccio, in grado di garantire il vero capitale che si ritiene di avere perso, quello della moralità intesa come unione tra le parti di una collettività incapace di pensarsi diversamente dall’idea di omogeneità mortifera e cadaverica.