Come si calcola il capitale naturale
Economia Il nostro benessere e lo sviluppo dipendono dai servizi ecosistemici, che rimangono invisibili ai modelli economici
Economia Il nostro benessere e lo sviluppo dipendono dai servizi ecosistemici, che rimangono invisibili ai modelli economici
Quante volte abbiamo ascoltato frasi come queste? Frutto di una visione purtroppo ancora diffusa, delineano una fantomatica contrapposizione tra uomo e natura. Eppure questa contrapposizione non può esistere dato che, quale recente prodotto dell’evoluzione della vita sulla Terra, siamo fatti con le stesse componenti di tutti gli altri organismi viventi e come gli altri risentiamo dell’ambiente che ci circonda.
IL NOSTRO BENESSERE, la nostra salute, il nostro sviluppo dipendono dagli ecosistemi che offrono gratuitamente alla società una serie di servizi, definiti appunto ecosistemici, di cui nessun modello di sviluppo può fare a meno. E invece il capitale naturale, da cui traiamo quotidianamente sostentamento, sembra essere senza valore, rimane invisibile ai modelli economici. Sicuramente è un valore che non può essere individuato solo in termini di mera rendicontazione economica, poiché il valore di strutture, processi, funzioni e servizi dei sistemi naturali va ben oltre una semplice monetizzazione. Ma è un valore che esiste, della cui importanza ci rendiamo conto soprattutto quando lo perdiamo.
IL TEMA È STATO TRATTATO A LIVELLO accademico e non solo. Esistono numerosi tentativi, per quanto imperfetti, di valutazione economica dei servizi ecosistemici a partire dallo studio condotto nel 1997 e apparso sulla rivista Nature che stimò tra i 16 e i 54 mila miliardi di dollari l’anno il valore di 17 servizi ecosistemici (dalla regolazione del clima ai cicli idrici, dall’impollinazione alla formazione del suolo, ecc.). Studi che sono proseguiti e che anche in Italia hanno prodotto strumenti importanti come i due Rapporti sul Capitale Naturale d’Italia, realizzati dall’omonimo Comitato istituito da una legge del 2015, che dovrebbero essere tenuti in considerazione durante tutto il processo di programmazione economica nazionale.
EPPURE, L’IMPOSTAZIONE PIÙ DIFFUSA rimane quella di individuare nella tutela ambientale una contrapposizione alla crescita di un settore industriale, di una comunità o persino di un’intera nazione. Tanto che la protezione di determinate aree del Paese continua ad essere vista come un ostacolo allo sviluppo. Ma se è vero che le aree protette, quando gestite in maniera efficace ed efficiente, costituiscono una parte importante delle strategie per la conservazione della biodiversità, come è possibile considerarle un limite alla crescita sociale che, senza il bene che esse tutelano, non potrebbe esserci?
LA CONOSCENZA scientifica sin qui acquisita ci conferma che le aree protette, non solo sostengono la salute e la vitalità degli ecosistemi e delle specie minacciate, ma costituiscono la base essenziale per offrire servizi ecosistemici fondamentali al benessere e allo sviluppo delle comunità umane: dall’approvvigionamento di acqua alla sicurezza alimentare, dalla riduzione del dissesto idrogeologico alla regolazione del clima, ecc.
Grazie a queste molteplici funzioni e al loro contributo alle economie locali e nazionali, le aree protette sono riconosciute parte integrante delle politiche di sostenibilità e costituiscono uno degli strumenti fondamentali previsti dalla Convenzione sulla Diversità Biologica delle Nazioni Unite nel suo Piano di azione strategico 2011/20 approvato nella 10° Conferenza delle Parti della Convenzione tenutasi nel 2010 ad Aichi-Nagoya in Giappone (Aichi Biodiversity Target).
NON È UN CASO CHE IL NUMERO delle aree naturali protette cresca di anno in anno. Pur essendo difficile un conteggio preciso, viste le differenze tra le legislazioni dei vari Paesi, secondo il World Database on Protected Areas nel 2016 le aree protette erano 217.155: 202.467 terrestri (per una superficie di quasi 20 milioni di kmq) e 14.688 marine (per quasi 15 milioni di kmq degli oceani). Di queste, quasi 900 sono in Italia, uno dei Paesi europei più ricchi di biodiversità terrestre e marina.
ATTUALMENTE IL SISTEMA ITALIANO delle aree protette comprende diverse tipologie: i parchi nazionali, quelli regionali e interregionali, le riserve naturali statali o regionali, le aree marine protette e varie aree di livello locale, oltre a tutti i siti della Rete Natura2000. Un grande mosaico di ambienti naturali con lo scopo, da un lato, di proteggere un rilevante patrimonio di biodiversità (obiettivo prioritario di qualsiasi area protetta), dall’altro, di promuovere forme di sviluppo economico e sociale in piena coerenza con gli obiettivi della sostenibilità ambientale.
PER QUESTO LA STRATEGIA NAZIONALE per la Biodiversità, predisposta nel 2010 dal Ministero dell’Ambiente, indica così la propria visione: «La biodiversità e i servizi ecosistemici, nostro capitale naturale, sono conservati, valutati e, per quanto possibile, ripristinati, per il loro valore intrinseco e perché possano continuare a sostenere in modo durevole la prosperità economica e il benessere umano nonostante i profondi cambiamenti in atto a livello globale e locale». Una visione che implica una protezione capace di incidere positivamente su riconoscimento dei servizi ecosistemici, lotta e adattamento ai cambiamenti climatici, promozione di politiche economiche ambientalmente sostenibili.
QUANTO DI QUESTO SI STA effettivamente realizzando? Non molto, in verità.
Nonostante l’impegno straordinario di tanti operatori di parchi e riserve, manca ancora una visione d’insieme e una vera strategia operativa. Del resto, il sistema delle aree protette è stato attraversato nelle ultime due legislature dal dibattito su una scellerata proposta di modifica della legge quadro sulle aree naturali protette (Legge n. 394/1991) che avrebbe comportato, tra l’altro, un maggior controllo partitico della governance dei parchi nazionali, un allentamento del divieto di attività venatoria all’interno dei parchi attraverso l’ingresso di selecontrollori (in sostanza un modo diverso di chiamare i cacciatori), l’introduzione di un sistema di royalties che avrebbe finito per essere quasi uno stimolo ad autorizzare o mantenere impianti ad alto impatto ambientale nei parchi.
INVECE DI RAGIONARE SU COME RENDERE I parchi più efficaci per affrontare le nuove sfide che provengono dalla conservazione e dallo sviluppo sostenibile, magari anche attraverso una nuova Conferenza nazionale sulle aree protette (l’ultima risale al 2002), il dibattito si è avvitato, complice una classe politica in larga parte miope e anche per gli errori di Federparchi e di un paio di associazioni ambientaliste, su come nominare un direttore di parco o come calcolare la royalty da pagare per continuare a captare un corso d’acqua…
MA NON È CERTO DI QUESTO che hanno bisogno i parchi, le riserve e le aree marine protette del nostro Paese: hanno bisogno di strumenti efficaci per garantire la conservazione della biodiversità, per ridurre l’impatto dei cambiamenti climatici sulla natura, definendo opportune misure di adattamento e mitigazione dei loro effetti e aumentando la resilienza degli ecosistemi naturali e seminaturali, per integrare la conservazione della biodiversità nelle politiche economiche e di settore, anche quale opportunità di nuova occupazione, per rafforzare la comprensione dei benefici dei servizi ecosistemici derivanti dalla tutela e la consapevolezza dei costi della loro perdita.
AGLI ADDETTI AI LAVORI TUTTO QUESTO suonerà familiare perché lo hanno letto nella Strategia Nazionale sulla Biodiversità. Risale ormai a 8 anni fa. Sarebbe il caso di renderla finalmente operativa!
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