Come si addestra un combattente alla «non violenza»
SAGGI Manni ripubblica il volumetto, uscito nel 1967, del filosofo ed educatore antifascista Aldo Capitini
SAGGI Manni ripubblica il volumetto, uscito nel 1967, del filosofo ed educatore antifascista Aldo Capitini
«Combattente nonviolento»: a prima vista pare un ossimoro, perché il combattente, fin dall’antichità, è il guerriero in armi, tanto che il presocratico Eraclito poteva scrivere che «Polemos (cioè la guerra) è padre di tutte le cose». È questo «fondamentale» che Aldo Capitini, filosofo ed educatore antifascista e nonviolento (1899-1968), ha cercato di smontare e ribaltare, sia dal punto di vista teorico che pratico, attingendo a un patrimonio culturale che parte da Buddha e Gesù e arriva fino a Gandhi e Martin Luther King.
LA SINTESI di questo lavoro di ricerca è un volumetto uscito per la prima volta nel 1967 per i tipi Feltrinelli e meritoriamente ripubblicato ora dall’editore Manni, Le tecniche della nonviolenza: una sorta di manuale di addestramento per formare appunto il «combattente nonviolento» (introduzione di Goffredo Fofi, postfazione di Giuseppe Moscati, pp. 172, euro 17).
Si tratta di un testo che, in un tempo come il nostro di guerra inarrestabile, potrebbe sembrare velleitario e inutile, buono solo per le «anime belle», come facilmente direbbero i pacifisti in mimetica – questo sì un ossimoro – che riempiono palazzi del potere e studi televisivi. Ma che invece, se preso sul serio e letto con attenzione e onestà intellettuale, scardina il senso comune e propone un’alternativa faticosa e invisa al sistema capitalistico armato, ma praticabile.
DEL RESTO È LO STESSO Capitini che, parafrasando Gandhi, scrive che «una campagna nonviolenta provoca cinque reazioni: l’indifferenza, il ridicolo, l’insulto, la repressione, il rispetto. Per arrivare al quinto punto talvolta ci vuole molto tempo».
Presupposto teorico e punto di partenza è appunto la «nonviolenza», scritto tutto attaccato, perché non sembri una risposta negativa alla violenza, ma sia una proposta positiva, in cui il fine non giustifica i mezzi, ma fini e mezzi coincidono. «Il fine della pace – scrive Capitini – non può realizzarsi attraverso la vecchia legge di effetto tanto instabile ’Se vuoi la pace prepara la guerra’, ma attraverso un’altra legge: Durante la pace prepara la pace».
Il fine allora non è la «vittoria» di una parte – obiettivo che risuona in continuazione in questi mesi – ma la giustizia per entrambi. E il mezzo per raggiungerlo è il metodo nonviolento, o meglio – secondo Capitini – la «nonviolenza attiva», che è l’esatto contrario della violenza ma anche della «rassegnazione inerte».
Che la nonviolenza sia il metodo dei coraggiosi («la nonviolenza è il culmine del coraggio. Chi non ha superato ogni paura non può praticare la nonviolenza alla perfezione», dice Gandhi) è dimostrato dalle decine di tecniche nonviolente, sia individuali che collettive, che Capitini illustra, attingendo dalla storia, dalla rivoluzione gandhiana in India alla resistenza nonviolenta dei norvegesi ai nazisti, alla lotta dei neri negli Usa: digiuni, «noncollaborazione», marce (come la Perugia-Assisi, «inventata» da Capitini nel 1961), scioperi variamente declinati («di zelo», «a singhiozzo», «a sorpresa», «a scacchiera», fino allo sciopero a rovescio di Danilo Dolci), «affratellamento», «pedinamento ossessivo», «intromissione e ostruzione nonviolenta», boicottaggi, ma anche sabotaggi e disobbedienza civile, se infrangono la legalità senza mettere a rischio le persone.
TECNICHE che, per essere attuate, hanno bisogno di un vero e proprio addestramento, richiedono tempi lunghi e necessitano di profonda persuasione e grande forza interiore, per resistere alle azioni repressive del potere. Che, secondo Capitini, resta il problema di fondo: poche persone decidono per tutti gli esseri viventi (animali e piante comprese), ingannando gli individui «per creare un consenso pubblico fittizio mediante un enorme dispiegamento di mezzi di comunicazione di massa». La prospettiva della nonviolenza è invece l’«omnicrazia», il potere di tutti dal basso. Un radicalismo quello di Capitini, scrive Fofi nella prefazione, «infinitamente utopico» ma allo stesso tempo «più che necessario».
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