I grandi stravolgimenti ambientali, quasi sempre riconducibili alle attività antropiche, segnano drammaticamente la nostra epoca. Cambiamenti climatici, acidificazione degli oceani, sovra-sfruttamento delle risorse naturali e perdita di biodiversità, sono solo alcuni esempi del progressivo degrado dello stato di salute del Pianeta. Sull’inquinamento da plastica in mare sono bastate poche decadi perché la situazione ci sfuggisse letteralmente di mano. Ciò malgrado oggi, nella maggior parte dei casi, avremmo tutti gli strumenti per intervenire e, quantomeno, limitare i danni. La strategia sulla quale anche la scienza ci chiede di scommettere consta in un intervento a monte, ovvero ridurre la produzione di plastica: questo materiale, straordinario se si considera la moltitudine di applicazioni a cui può essere destinato, va quindi impiegato con moderazione, evitando sprechi e abusi.

Se la sera, rientrati a casa, trovassimo il pavimento bagnato, con ogni probabilità ci accingeremmo ad asciugarlo con degli stracci. Ma se nel volgere di poco riuscissimo a individuare l’origine del problema in un rubinetto lasciato aperto ci precipiteremmo subito a chiuderlo prima di continuare a raccogliere l’acqua. Lo stesso discorso può essere applicato al propagarsi dell’emergenza plastica: oggi disponiamo di numerosi strumenti che, se concretamente applicati, ci permetterebbero di ridurne la dispersione e di altri che, se opportunamente sviluppati, potrebbero aiutarci a chiudere quasi completamente il rubinetto. Al contrario, non abbiamo una quantità sufficiente di opzioni per raccogliere tutto questo materiale ovunque si trovi disperso.

NON ESISTE UN’UNICA SOLUZIONE, ma bisogna mettere in atto molteplici interventi che, un tassello alla volta, possano costruire il mosaico risolutivo di cui abbiamo urgente bisogno.

Nel libro Non tutto il mare è perduto, pubblicato da Casti editore, si segue questo approccio. Partendo dalla drammaticità dello stato di salute in cui versano gli oceani (di cui peraltro nella prefazione ci porta testimonianza il navigatore Giovanni Soldini), possiamo provare a seguire differenti strategie a seconda dei settori merceologici presi in esame. A partire dalla drastica riduzione di packaging e imballaggi, che da soli costituiscono il quaranta per cento della produzione globale. Una delle azioni da intraprendere in tale ambito è quella di tornare allo sfuso e alla ricarica, ovvero a quelle modalità di vendita molto in voga fino a pochi decenni fa. Molte aziende stanno già virando su tali strategie e i negozi zero waste cominciano a proliferare nelle nostre città. Un approccio analogo può essere applicato anche alle bottiglie per le bevande. In un paese come l’Italia, tra i maggiori consumatori al mondo di acqua minerale, è doveroso non solo incentivare il ricorso a contenitori ricaricabili ma anche introdurre il Deposit Refund System (o DRS) già in uso in tanti paesi del nord Europa. Tale sistema, infatti, prevede il versamento di una piccola cauzione sul contenitore della bevanda acquistata, restituita nel momento in cui questo viene riportato al negozio in condizioni ottimali. Una soluzione, questa, che contribuirebbe ad arginare il problema, poiché produrre meno plastica e gestire al meglio quella già in uso equivale a ridurre a monte l’inquinamento.

Smettiamo però di cullarci nell’illusione che tutto possa risolversi semplicemente gettando negli appositi contenitori vaschette, flaconi, bottiglie e pellicole. Se i mari soffocano lo si deve anche al sogno infranto del riciclo come via prioritaria per risolvere ogni problema. Di tutta la plastica prodotta nella storia umana solo il 10 per cento è stato correttamente riciclato, il resto è finito bruciato negli inceneritori, in discariche già stracolme o disperso nell’ambiente.

Così oggi non c’è angolo del Pianeta che sia esente dal tale forma di contaminazione e naturalmente anche i mari di casa nostra non fanno eccezione. Ne diamo nota in Non tutto il mare è perduto, cronaca ragionata di un viaggio che tocca numerose zone costiere italiane, ognuna con le sue peculiarità storico-naturalistiche, da difendere e tutelare, eppure minacciate dalla presenza di rifiuti, come Capraia, un’oasi di biodiversità. In alcuni periodi dell’anno, grazie a particolari condizioni meteo-marine, il mare che circonda l’isola dell’arcipelago toscano, si trasforma in una vera e propria zuppa di plastica: un fenomeno ben noto nei grandi oceani a cui, nel linguaggio comune, si attribuisce spesso l’appellativo di isola di plastica. In realtà non si tratta di aree con superfici calpestabili ma qui la concentrazione di rifiuti, per lo più microplastiche, raggiunge livelli drammaticamente elevati. Una situazione comune anche al piccolo arcipelago delle isole Tremiti, paradiso dell’Adriatico.

Qui come altrove le microparticelle più inquinanti sono anche quelle riconducibili ai nostri abiti, che da alcuni decenni ormai sono per lo più in poliestere, nylon o acrilico. A ogni passaggio in lavatrice, migliaia di minuscole fibre vengono rilasciate dai tessuti per finire inevitabilmente negli oceani.

MA LE MICROPLASTICHE DERIVANO anche dalla progressiva degradazione di bottiglie, flaconi e contenitori di varia natura trasportati lungo i litorali dai fiumi, dei veri e propri nastri trasportatori di spazzatura. Il Sarno, per esempio, che fu importantissimo per le popolazioni del passato oggi è annoverato tra i corsi d’acqua più inquinati del mondo. Osservando la mole di scarti lungo il litorale antistante la sua foce è facile accorgersi come la plastica monouso la faccia da padrone. Ecco perché migliaia di realtà produttive in tutto il mondo hanno già deciso abbandonare definitivamente l’usa e getta. Non sostituendolo con materiali generalmente (e spesso erroneamente) percepiti come eco-friendly come la carta, il vetro o le bioplastiche. Ma al contrario modificando radicalmente i modelli di business incentrati sull’impiego di imballaggi lavabili, riutilizzabili e ricaricabili prevenendo così all’origine la produzione di rifiuti, nel pieno rispetto di uno dei principi cardine dell’economia circolare.

I PROBLEMI LEGATI ALL’USO SPROPOSITATO delle plastiche non si fermano solo al packaging: altri settori come la pesca ne fanno un uso scriteriato. Un palese paradosso da parte di un’industria che pur vivendo di mare, contribuisce a inquinarlo. La recente approvazione in Italia della tanto attesa legge Salvamare andrà certo a colmare un’importante stortura normativa, favorendo il recupero della plastica dispersa in mare da parte dei pescatori, ma da sola non basterà: è fondamentale che gli addetti ai lavori diventino responsabili dell’intero ciclo di vita di reti e attrezzature da pesca. Un approccio, questo, meglio noto come responsabilità estesa del produttore.

Con un mare malato abbiamo tanto da perdere. Nonostante la grande distesa blu sembri imperturbabile, il suo funzionamento si regge su delicati equilibri da cui dipende la nostra stessa sopravvivenza. Abbiamo la possibilità concreta di cambiare lo stato delle cose e fare in modo che l’inquinamento da plastiche sia solo un brutto ricordo.