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Come possiamo colmare il deficit di rappresentanza?

Come possiamo colmare il deficit di rappresentanza?Un'opera di Renato Mambor

Sinistra Un quarto di secolo fa l’allora Partito Democratico della Sinistra (Pds) convocò nella Certosa di Pontignano cento personalità a discutere per un paio di giorni sul futuro della sinistra. Ora, al netto che parte dei protagonisti di allora sono tuttora impegnati a dibattere la versione aggiornata del tema, forse è il metodo che andrebbe recuperato, questa volta aprendo le porte, della Certosa o di qualunque altro luogo Covid permettendo, a un confronto assai più inclusivo di quella vitalità accennata

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 5 gennaio 2021

L’orizzonte è scomparso, denunciano sul manifesto del 19 dicembre Ardeni e Bonaga. Come se non avessimo più domani, somigliamo a nave nella nebbia ferma in rada senza prospettiva, e si suppone senza rotta. Galeotta Bologna, nel mio caso. Perché l’immagine della bonaccia di vento mi riporta a un esame di inglese con Gianni Celati e la lettura in originale della Linea d’ombra di Conrad.

Quella era allegoria del passaggio alla maturità, più o meno. Qui l’immagine piega sulla perdita di futuro, sacrificato al primato di altri, tecnologia in testa. Che poi in quest’anno nuovo, dove saremo perseguitati dal genio fiorentino a settecento anni dalla morte, sulla rinuncia del futuro è facile innestare la legge del contrappasso. Quella del X canto infernale, Farinata e gli eretici puniti con l’ignoranza del presente, esatto contrario di noialtri, appassionati all’istante e impreparati senza appello sul domani. Ma torniamo al punto.

Tesi dei miei due amici è che non è data politica se non alla doppia condizione di pensare la realtà per come non è e di farlo assorbendo in sé la potenza, sinora ai margini, dei singoli, meglio se organizzati dal basso in una dinamica risolta come “cittadinanza partecipante”. Non è un duplicato della pulsione grillina a deprimere la delega nel nome della sollevazione digitale (Vasto Programma!). Piuttosto l’isocrazia suggerita si nutre di soggettività, percorsi individuali, donazioni di tempo, atti volitivi di civismo, spirito solidale e saperi sparsi che, laddove aggregati, possono elevare il cittadino da contribuente o utente di servizi a Persona cosciente nel senso di partecipe a configurare il suo tempo.

Data simbolica non del debutto, ma della necessità della svolta, la sera magica delle sardine a Piazza Maggiore. Migliaia pigiati sopra il Crescentone. Come chiosato da Nadia Urbinati giorni fa, conferma del messaggio “non siamo orpello, audience, o solo schede elettorali”. Sono, erano, agire politico e soggetto capace in sé, per il solo fatto di manifestarsi, di dirottare il consenso e l’agenda in una direzione diversa dalle previsioni. Lo si può dire, colpo di coda della crisi, ma al fondo non lo è stato. Sembra più logico immaginarlo sbocco obbligato quando la politica istituzionale divorzia oltre misura dalla comunità che si candiderebbe a rappresentare.

Sul come, il quando e il perché siamo arrivati qui il rimando è a scaffali stipati di saggi usciti almeno nell’ultimo ventennio. Allo stesso tempo sarei meno drastico nello scrivere l’epitaffio della società organizzata. Di recente le sedici – dicasi sedici – giornate a tema promosse dal Forum sulle disuguaglianze e diversità hanno intrecciato centinaia di voci a loro volta espressione di aggregazioni sorte in contesti quasi mai illuminati dai media eppure pulsanti di vitalità, produzione di idee e partecipazione attiva. Il punto – e qui gli autori non hanno ragione ma stra-ragione – è nella deriva istituzional-governista dei partiti. Il che potrebbe persino parere un limite tollerabile se non si fosse accompagnato nel tempo a un disarmo critico delle identità a fondamento di quelle comunità.

Tradotto: il problema non pare stia nel divorzio tra Soggetto politico e natura di una società frammentata, oramai deprivata di blocchi sociali stabili o comunque riconducibili a interessi omogenei. Il problema è tout court la fragilità del Soggetto politico se lo si assume nella versione compiuta, una funzione storica che poggia su una cultura condivisa. Venuto meno questo elemento, non nell’ultimo biennio s’intende, ma in un arco assai più lungo, lo schiacciare i partiti o quanto ne residuava dentro il perimetro delle istituzioni è stata la risposta a due dinamiche. Per un verso il ridursi della dimensione elettiva a fattore restante di mobilità sociale, per l’altro la scelta di supplire a un deficit di rappresentanza con un primato nell’esercizio del potere, ma col serio pericolo di rinverdire i limiti noti di quel “riformismo dall’alto” in auge negli anni novanta e repentinamente decaduto.

Allora, che fare? Fosse per me coglierei al volo la suggestione-provocazione e proverei a darle uno spazio adeguato di intesa. Un quarto di secolo fa l’allora Partito Democratico della Sinistra (Pds) convocò nella Certosa di Pontignano cento personalità a discutere per un paio di giorni sul futuro della sinistra. Ora, al netto che parte dei protagonisti di allora sono tuttora impegnati a dibattere la versione aggiornata del tema, forse è il metodo che andrebbe recuperato, questa volta aprendo le porte, della Certosa o di qualunque altro luogo Covid permettendo, a un confronto assai più inclusivo di quella vitalità accennata.

In fondo, il giorno appresso alle sardine bolognesi – Stefano e Piergiorgio lo ricorderanno – là di fianco, a Palazzo Re Enzo, il Pd costruiva una tre giorni sugli anni Venti del nuovo secolo e a sorpresa ci si trovò a discutere con quattromila anime quando ne attendevamo la decima parte. Qualcosa vorrà dire. Magari non proprio che c’è vita su Marte. Ma che in tante e tanti se lo chiedono e sono pronti a impegnarsi a cercarla. Il che di questi tempi a me pare tutt’altro che poco.

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