Come (non) è cambiata la classe politica italiana
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Dal primo Parlamento del 1948 a quello attuale sono passati 74 anni. Cosa ci racconta il profilo socio-demografico della classe politica nazionale e il suo cambiamento nel tempo? Proviamo a rispondere attraverso l’analisi dei dati socio-demografici di tutti i parlamentari italiani che sono stati eletti dalla prima Legislatura a quella attuale. Se nel primo Parlamento le donne erano il 5.39%, oggi siamo a un terzo del totale (33,66%).
La percentuale più elevata, pari al 35,8% viene raggiunta nella XVIII legislatura, con i Governi Conte I (2018-2019), Conte II (2019-2021) e Draghi (2021-2022). L’età media non è cambiata in modo drastico e solo due anni (da 55 a 53) separano il primo dall’ultimo Parlamento. Il Parlamento “più giovane” è stato quello post mani pulite, corrispondente alla XII legislatura. La “seconda Repubblica” nasce più giovane, per ovvie ragioni di ricambio di una classe politica decimata dalle inchieste giudiziarie.
Se il quadro demografico è per molti versi noto e corrispondente alle attese, sono i dati “geografici” a restituire qualche interessante elemento di analisi. Anzitutto, il luogo di nascita e il rapporto con il territorio. La classe politica italiana si è via via sempre più concentrata, per provenienza, nei poli urbani a tutto svantaggio delle aree interne, dei piccoli comuni, delle aree montane e lontane dai servizi essenziali di cittadinanza (ospedali con il pronto soccorso, scuole secondarie e stazioni con servizio di mobilità interregionale). Se nel primo Parlamento il 76,4% degli eletti proveniva dai Comuni non area interna – quindi a meno di mezz’ora di distanza dall’offerta dei citati servizi essenziali – in quello attualmente in carica la percentuale sale all’87%.
In altre parole, oggi circa 1 parlamentare ogni 10 proviene da quella parte del territorio (le aree interne) che corrisponde a quasi 4.000 comuni (ovvero la metà del totale), al 58,8% della superficie nazionale ed è abitata da più di 13 milioni di persone. Territori, ricordiamolo, che scompaiono nel disegno dei collegi elettorali e che, con la cancellazione delle istituzioni intermedie come le Comunità Montane e le Province, sono drammaticamente privi di rappresentanza istituzionale.
Ciò è vero anche per i Comuni meno interni e classificati come “intermedi”, che passano dal 12,8% di parlamentari della prima legislatura al 7,3% dell’attuale. Diminuisce in modo netto anche la percentuale di rappresentanti politici nazionali provenienti dai Comuni “cintura”, a meno di 30 minuti dai servizi essenziali, tutto a favore dei poli urbani, che invece salgono dal 51,7% al 68,7%. Una crescita impressionante che, appunto, testimonia di una classe politica che – per nascita e provenienza – porta nelle istituzioni rappresentative del Paese priorità e bisogni lontani dal carattere policentrico del territorio.
La classe occupazionale, infine, restituisce un Parlamento abitato dalle posizioni più elevate della stratificazione sociale (imprenditori, dirigenti e liberi professionisti), con una percentuale che dal 71,5% della prima legislatura del 1948 arriva al 67,8 di quello attuale: la seconda più elevata di tutta la storia Repubblicana. La percentuale degli appartenenti ai piani alti della stratificazione occupazionale mostra un andamento a “U”, con percentuali simili tra la prima fase della Repubblica e quella attuale. La classe media impiegatizia si attesta in media sul 30%, mentre la classe operaia non solo non va in paradiso, ma quasi mai neppure in Parlamento e oscilla sempre intorno all’1%. Solo nell’VIII legislatura supera il 2% degli eletti.
In parallelo, dal primo Parlamento all’attuale il tasso di partecipazione elettorale passa dal 92,2% al 63,8% e l’opzione astensionista caratterizza sempre più gli elettori a basso status sociale e i luoghi del margine: aree interne, piccoli comuni, aree in crisi o declino. Al crescere dell’astensionismo il voto diventa meno inclusivo: una diseguale capacità di rappresentanza implica una divergente capacità di influenzare le agende politiche delle classi sociali più svantaggiate, delle persone con minori risorse e dei luoghi che non contano.
Il quadro complessivo che emerge è quello di un ceto politico sempre meno radicato nella diversità territoriale e stabilmente composto da membri delle classi sociali più elevate. Dal politico “notabile” e affabulatore dei primi anni dell’Unità d’Italia, alla politica organizzata e intermediata del dopoguerra, sino al crollo della prima Repubblica e all’emergere dei nuovi partiti, le caratteristiche di classe del ceto politico sono rimaste sostanzialmente stabili. Sono però cambiati i rapporti tra politica, stato e società, con conseguenze sul rapporto di rappresentanza, sugli scambi occulti e sul sempre più elevato astensionismo e disaffezione verso la politica.
@FilBarbera
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