Cultura

Come nominare forme lavorative e faglie di sfruttamento

Come nominare forme lavorative e faglie di sfruttamentoEquivalence by Julian Stairs

Saggi «Linguaggio e lavoro nel XXI secolo. Natura e storia di una relazione» di Angelo Nizza, edito da Mimesis

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 16 marzo 2021

Costruire un modello teorico che possa descrivere il lavoro oggi significa confrontarsi con forme lavorative che mettono in discussione le categorie impiegate per leggere il lavoro taylor-fordista. Se questo si articolava secondo una netta linea di demarcazione che opponeva mente e corpo, il lavoro oggi si esplica precisamente nell’indistinzione dei due ambiti. In questo senso, pensare il lavoro contemporaneo significa innanzitutto pensare il linguaggio. È la tesi di Angelo Nizza presentata nel suo Linguaggio e lavoro nel XXI secolo. Natura e storia di una relazione (Mimesis, pp. 197, euro 12). La relazione che intercorre tra linguaggio e lavoro richiede dunque l’elaborazione di un modello teorico che, denuncia l’autore, è stato lasciato per lo più ai margini del pensiero filosofico.

A ESSERE CADUTA, spiega, è l’opposizione tra praxis (attività senza opera) e poiesis (attività con opera), tra linguaggio e produzione, coppia concettuale che, da Aristotele in poi, ha avuto differenti declinazioni nel pensiero di filosofi e filosofe, riepilogate nel primo capitolo (Hegel, Marx, Gehlen, Habermas, Arendt, Austin).
Dopo l’illustrazione di una vasta letteratura sociologica sulla metamorfosi dell’industria e dei servizi a partire dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (Gorz, Rifkin, Zarifian, i teorici del capitalismo cognitivo, i linguisti del gruppo Langage et Travail), nucleo centrale del libro è l’analisi dei tre maggiori paradigmi del pensiero italiano contemporaneo che hanno il merito di aver esplorato l’indistinzione di praxis e poiesis: il modello dell’inoperosità di Giorgio Agamben, la tesi di Ferruccio Rossi Landi sul linguaggio come lavoro e la pista aperta da Paolo Virno e dagli operaisti circa il lavoro come linguaggio. Se l’inoperosità di Agamben fatica a leggere il divenire linguistico del lavoro, scambiandolo per fine del lavoro e fine della vita attiva, la proposta di Rossi Landi opera uno schiacciamento dell’agire linguistico sulla produzione, omettendo il vero soggetto della trasformazione, il lavoro.

NIZZA, ALLORA, si schiera a favore del modello di Virno, perché ha il pregio di assumere il mescolamento tra praxis e poiesis, evadendo tanto le teorie della fine del lavoro e dell’inoperosità, quanto il riduzionismo che vedrebbe il linguaggio esclusivamente come un’appendice della produzione. Adottando questa cornice analitica è possibile leggere lavori che, spesso considerati come forme di liberazione, si rivelano essere faglie di sfruttamento. Quello di cura, relazionale e affettivo, il lavoro freelance o di molti migranti – come ricorda Marco Mazzeo nella post-fazione -, caratterizzati da flessibilità, creatività, relazionalità e attività non ripetitive, mostrano che oggi «sono le merci che prendono a modello le parole: le prime si spiegano per mezzo delle seconde e non viceversa».
In questa prospettiva, sebbene il libro si concentri su fenomeni lavorativi specifici (l’operaio della fabbrica automatizzata, l’operatore finanziario, il freelance), riesce a dialogare anche con differenti forme contemporanee di estrazione del valore.

IN FENOMENI quali l’estrattivismo, il lavoro di cura, storicamente legato al genere femminile, e il lavoro clinico vi è una completa elisione tra corpo e mente che si sviluppa a partire da una lettura linguistica dei corpi – umani e più che umani -, la quale individua nella relazionalità e nelle capacità generative dei corpi il principale oggetto che è possibile mettere a valore.
La ricchezza del libro di Nizza si apprezza nella capacità di delineare un territorio critico che ospita gli attuali conflitti, ma anche le possibilità di emancipazione a venire.

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