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Come l’Urss scoprì il rock

Come l’Urss scoprì il rockUn disco di Adriano Celentano pubblicato in Unione Sovietica

Storie/I cinquanta titoli più venduti tra il 1974 e il 1993 nel paese secondo il sito ChartMasters.org

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 19 febbraio 2022

C’era una volta l’Unione Sovietica. E c’era una volta un mondo in cui il copyright non esisteva, o meglio, esisteva per gli autori (musicisti, scrittori, drammaturghi…), cittadini sovietici o stranieri che avevano pubblicato i loro lavori prima di tutto sotto l’egida del Pcus, il Partito comunista sovietico. La regola fu applicata fino a 50 anni fa, il 1972 fu l’ultimo anno in cui rimase in vigore questa visione socialista della proprietà intellettuale e l’anno seguente, nel pieno dell’era di Leonid Breznev, l’Urss aderì alla Convenzione universale sul diritto d’autore che era stata adottata internazionalmente nel 1952. Fu una svolta epocale, in particolare per la musica perché consentì la diffusione autorizzata degli artisti esteri e la nascita di un mercato ufficiale locale.
Prima di allora la circolazione dei dischi stranieri era in gran parte affidata a un sottobosco clandestino che non era a corto di trovate incredibilmente fantasiose. L’esempio più eclatante furono i «Roentgenizdat», le pubblicazioni Röntgen, cioè le edizioni a raggi X. Erano dischi veri e propri, ma non incisi sul classico vinile, bensì con i solchi pressati su lastre radiografiche ritagliate e riciclate, come Francesco Adinolfi ha raccontato su queste pagine («Alias» dell’11 ottobre 2014). Un modo economico e pratico (nonché facile da nascondere) per stampare clandestinamente gli album e i singoli. I «rëbra», le costole, come furono ribattezzati, consentirono la diffusione del jazz anni Sessanta e dei primi successi dell’imperialista rock’n’roll. Non importa se il disco al posto dell’etichetta sfoggiasse una frattura all’omero e se la qualità sonora fosse paragonabile a quella di una radio a onde corte fuori sintonia, c’era il fascino di una musica esotica e proibita. L’adesione alla Convenzione sul diritto d’autore tuttavia non portò a una vera e propria liberalizzazione del mercato, né dal punto di vista commerciale né da quello della censura. Tutti i dischi che venivano diffusi in Unione Sovietica passavano dall’etichetta di stato, la Melodija, nata sotto l’egida del Ministero della Cultura nel 1964 che esercitò il monopolio delle edizioni musicali fino al 1991. L’adesione alle regole internazionali sul diritto d’autore ha permesso quindi di ricostruire i contorni di un mercato rimasto per anni misterioso.

LE REGOLE
Tra gli anni Settanta e Ottanta la Melodija distribuiva fino a duecento milioni di copie di dischi all’anno e, di fatto, era una delle principali etichette mondiali. Tutti i musicisti stranieri che volevano accedere a questo mercato dovevano passare dalla Melodija, accettandone le regole. In una produzione nominalmente dominata dalla musica classica, che non creava mai problemi politici, si inserirono così anche artisti rock e pop a cui solitamente veniva concesso il permesso solo per una parte del repertorio. Inevitabilmente, gli interpreti ritenuti più innocui e meno compromessi con il modello capitalista avevano una maggior facilità di farsi conoscere e quindi l’Urss fu terra di conquista soprattutto per artisti italiani, francesi e dell’Europa continentale. Per quanto riguarda i grandi nomi del rock anglosassone non ebbero mai la possibilità di diffondere i loro album così come erano stati ideati e creati, bensì riuscirono ad arrivare al pubblico sovietico solo attraverso raccolte assemblate alla meno peggio. E poiché molti autori non percepivano diritti per incisioni precedenti all’adesione alla Convenzione sul diritto d’autore, non avevano interesse a diffondere le loro canzoni in Urss. Le raccolte erano dunque dei greatest hits emendati dalla censura che non di rado finivano per essere privi di vere e proprie hit, risultando antologie di brani spuri.
Questo particolare clima creò un ecosistema musicale unico. Una vera storia alternativa del pop e del rock. Il sito ChartMasters.org, elaborando i dati provenienti da più fonti, ha stilato una classifica dei 50 titoli più venduti tra il 1974 e il 1993, ricostruendo così questo bizzarro mercato fatto di nomi a noi oggi sconosciuti, di cantanti italiani nazional popolari e di lp che nessuno ha mai sentito nominare ma firmati da grandi band.
Date le premesse non sorprende che l’album pop rock più venduto nella storia dell’impero sovietico sia Long Play Album degli Star on 45, pubblicato nel 1981. Gli Star on 45 erano una band di studio olandese che realizzava un classico prodotto (o meglio sotto-prodotto) discografico che ebbe un certo seguito negli anni Ottanta. Erano 33 giri di cover suonate in chiave disco-dance, dei medley riarrangiati di successi di artisti molto famosi. Long Play Album era sostanzialmente un cavallo di Troia per proporre il repertorio dei Beatles. Sulla facciata A compariva un medley di 16 minuti in cui confluivano quasi 30 canzoni dei Fab Four, sul lato B tre altri medley che funzionavano più da riempitivo e mescolavano qualche hit dance come Funky Town a classici del primo rock come Only the Lonely di Roy Orbison. Al secondo posto troviamo un altro reperto di un’era che fu. È Magic Fly, opera prima dei francesi Space datata 1977, capostipite di un genere che univa elettronica, progressive, atmosfere da fantascienza e disco music e che venne definito «space disco» o «cosmo sound». Al terzo posto ecco i Led Zeppelin con Stairway to Heaven, un 33 giri uscito solo nel 1988 in piena perestrojka, che condensava in otto pezzi gli album III e IV della band di Page & Plant. Secondo ChartMasters questo lp vendette un milione e mezzo di copie. Scorrendo poi la top ten, ecco un’altra misconosciuta band olandese i Teach In, vincitori dell’ Eurofestival 1975. Arrivano poi i Creedence Clearwater Revival e i Rolling Stones, anch’essi con due raccolte selezionate dalla Melodija e edite nel 1988. A seguire i New Seekers, band inglese che incise negli anni Ottanta a Mosca una serie di classici in versione folk.

Una raccolta dei Led Zeppelin pubblicata in Unione Sovietica

 

ARRIVANO I NOSTRI
Di seguito compare il primo degli italiani in classifica, Toto Cotugno il cui 33 giri L’italiano del 1985 divenne un best seller da quasi 800mila copie. Per trovare i Beatles bisogna scendere al decimo posto; l’album in graduatoria è Taste of Honey, improbabile raccolta sovietica del 1986 di incisioni degli esordi con diverse canzoni (forse per ragioni di diritti) non firmate da Lennon-McCartney, tra cui la title-track. Non stupisce che un grande nome della discografia di quegli anni come i Pink Floyd compaia solo al ventesimo posto. La band che incise The Wall certo non era gradita a un regime che il muro l’aveva costruito. L’album in classifica è infatti datato 1989, l’anno dell’inizio della fine dell’impero sovietico ed è il live The Delicate Sound of Thunder. Il gruppo inglese in Unione Sovietica ha sempre venduto meno dei Ricchi e Poveri e di Albano e Romina che nella chart sono rispettivamente al tredicesimo e al sedicesimo posto.
Ma l’italiano più popolare oltre cortina era senza dubbio Adriano Celentano. Il suo 33 giri più venduto fu Tecadisk, lavoro del 1977 interamente cantato in inglese. Il molleggiato fu complessivamente con gli Stars on 45 l’artista che vendette di più nel mercato sovietico, sommando tutte le uscite discografiche. I singoli Azzurro e People vendettero quasi 2 milioni di copie. Il made in Italy trionfava anche grazie a Gianni Morandi, Riccardo Fogli e Pupo.
Con la fine dell’Unione Sovietica, iniziò un’era di instabilità. La Melodija si dissolse, una sua fabbrica di dischi cadde anche in mano a organizzazioni criminali diventando una stamperia di album pirata; riprese vita in Austria nel 1994 sotto l’egida del gruppo Bmg. Nel 2006 è tornata indipendente e da allora porta avanti un grande lavoro di rimasterizzazioni in digitale dello straordinario repertorio di musica classica che era la vera risorsa culturale autoctona dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

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