Come lasciare l’adolescenza nel ventre molle della Campania
«Presunzione» di Luca Mercadante per minimum fax Il parricidio e la prima volta, la maturità e le occupazioni, il ribellismo e la provincia. Nel libro tornano gli elementi del romanzo di formazione disposti in una gradazione negativa e discendente
«Presunzione» di Luca Mercadante per minimum fax Il parricidio e la prima volta, la maturità e le occupazioni, il ribellismo e la provincia. Nel libro tornano gli elementi del romanzo di formazione disposti in una gradazione negativa e discendente
Come si raccontano oggi Casal di Principe, Castel Volturno, Villa Literno, San Cipriano? Come si scrivono il sud e la Campania dopo le tinte notturne di Gomorra e i romanzi di De Giovanni che infestano il nostro immaginario? Un panorama esausto come l’olio che negli ultimi anni è stato capace di produrre grandi scritture (Piccolo, Pascale, Fiore, Milone, Parrella, Longo, De Silva) ma che fatalmente rischia di avviluppare anche la penna più capace. Chiunque abbia intenzione di raccontare quelle terre non può svicolare a questa domanda e Luca Mercadante sembra essersela posta, aver allenato il suo occhio a identificare i tristi tropi riuscendo nel tentativo di scardinarli. Nel suo romanzo c’è un figlio di papà che si è fatto da sé, un costruttore onesto, e un terzomondista che «va a nere».
LA «PRESUNZIONE» (minimum fax, pp. 270, euro 18) del titolo è quella del protagonista Bruno, un liceale che credendo in un chimerico mondo meritocratico non vede l’ora di levare le tende e lasciarsi tutto alle spalle perché, ritenendosi migliore di chi gli è accanto, si è convinto che «la vita vera non è adesso, la vita vera è dopo» e lo studio sarà l’ascensore sociale che gli impedirà di farsi seppellire accanto al padre palazzinaro. Ma il termine presunzione va inteso anche nel suo significato leguleio: «un’argomentazione o congettura per cui da fatti noti o immaginati si ricavano opinioni e induzioni più o meno certe intorno a fatti ignorati». È l’esercizio di ipnosi collettiva che, nel post-Tangentopoli, sembra aver circonfuso l’intero paese in un’allucinazione dietrologica e persecutoria, uno stato di realtà alterata di cui solo oggi si cominciano a intravedere i contorni.
Bruno Guida, figlio di un costruttore scalcinato, ha puntato fin dalle medie tutte le sue fiches sull’andarsene a gambe levate dal soffocante milieu in cui è cresciuto: «le persone normali che vogliono vivere in una società progredita, devono andarsene dalla Campania. Definirla ventre molle era fin troppo lusinghiero. Culo flaccido, questo era, e Napoli era il suo ano ammaccato, livido e puzzolente». Primo della classe, primo della scuola, io narrante di un bildungsroman che principia alla visita di leva – tappa insormontabile in cui si saluta l’adolescenza per la vita adulta e ci si prepara a un anno di naja e nonnismo. Quando tornerà a casa dalla caserma scoprirà non troppo sgomento che suo zio è sparito nel nulla.
PIERO, LO ZIO FRICCHETTONE, che non vuole essere chiamato zio perché contro il patriarcato, lavora per una ong (siamo nel 1993, non sono ancora illegali), ha in tasca una tessera della New York Public Library, una rubrica zeppa di «sindacalisti scrocconi, ambientalisti perditempo e poetesse omeopate» e sul pene calza un profilattico di gomma; lo ritroveranno così nella zona delle nigeriane dopo un anno passato cadavere, sepolto da una montagna di fango non metaforico.
Nel frattempo il simbiotico fratello gemello, il pragmatico padre di Bruno che non si è mai occupato di politica in vita sua, si è convinto che sia stato ucciso dalla camorra e l’evidenza dei fatti non lo persuaderà del contrario. Il suo vittimismo si traslerà in un impegno civile farsesco, un’avventura sconclusionata il cui apice è un’intervista possibile con Sandro Ruotolo o un taglio basso su Repubblica, un attivismo che finirà per sovvertire la pace familiare e l’equilibrio del figlio. Una morte per lupara bianca, o presunta tale, può essere sempre capitalizzata, da altri però, meno sprovveduti e con più pelo sullo stomaco, e Piero Guida diventerà un passe-partout, una carta da giocare nell’avvilente monopoli urbano per amministratori, traffichini, giornalisti e rampolli della piccola aristocrazia locale.
LA COLLOCAZIONE TEMPORALE del romanzo lascia poco adito a dubbi, siamo nell’ultimo anno a.B., prima che il paese perda la propria verginità e abbracci la sua vera natura, imperversano ancora le trasmissioni di Santoro e la Pantera è agli sgoccioli, si occupano ex carceri trasformati in lugubri licei classici e la rivoluzione diventa un passatempo in attesa di tornare da mamma all’ora di cena. In disparte c’è anche la camorra, più un tratto folcloristico che una cappa asfissiante, non uccide e non taglieggia, se ne sta acquattata ai margini della storia, anzi, impersonata da un altro zio, Nicolino, non poi così antropologicamente distante da Piero o dal padre di Bruno.
Il parricidio e la prima volta, la maturità e le occupazioni, il ribellismo e la provincia, in Presunzione ritroviamo gli elementi del romanzo di formazione italiano disposti in una gradazione negativa e discendente che ha il respiro genuino del caso più che il ticchettio implacabile del plot.
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