Cultura

Come la tragedia univa greci e barbari

Come la tragedia univa greci e barbariPedro Marzorati

FESTIVAL DELLA MENTE La celebre opera di Nietzsche si è rivelata decisiva per aprire nuovi scenari negli studi sul mondo antico. Ma nella dimensione dionisiaca creata dalla musica si scorge una traccia valida anche per il presente. Un’anticipazione da «La comunità del teatro», in scena domenica

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 31 agosto 2018

Quando, nel 1872, Friedrich Nietzsche pubblicò La nascita della tragedia dallo spirito della musica, la reazione, fra gli studiosi del mondo greco antico, fu di sconcerto e semmai fastidio. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, destinato a diventare un’indiscussa autorità fra i grecisti tedeschi, attaccò con veemenza le tesi nietzschiane. Un dibattito acceso vide l’autore, allora ventottenne professore a Basilea, difeso da pochi colleghi e il libro considerato un esempio di scarso rigore metodologico. La storia ha fatto giustizia delle polemiche. La riflessione di Nietzsche, del resto, abbandonò in fretta i rigidi confini degli studi filologici, tanto che nel Novecento il libro è stato riletto soprattutto come un primo decisivo momento nella costruzione di quella filosofia rivoluzionaria su cui non si finirà mai di ragionare. Eppure, l’opera si è rivelata decisiva anche per aprire nuovi scenari negli studi sul mondo antico e sulla stessa origine della tragedia, tema oscuro e dibattuto da sempre.

L’IDEA CENTRALE del libro di Nietzsche è semplice. Il mondo greco non è affatto dominato da quei canoni di misura, armonia, equilibrio e saggezza con cui per secoli appassionati e studiosi si perdevano in un’ammirazione sognante dell’irrecuperabile passato. Due sono le forze in gioco, in effetti. Ciascuna di esse ha il volto di un dio. Apollo contro Dioniso. La forza apollinea è ben raccontata dalla chiarezza con cui le arti plastiche sanno rappresentare l’essere umano nella sua individualità. Si tratta di uno sguardo limpido e luminoso quasi opposto allo sguardo cupo, ambiguo, selvaggio della forza che all’apollineo si oppone: il dionisiaco. È la musica, stavolta, a raccontare perfettamente quella dimensione orgiastica, ebbra, capace di calarsi nelle profondità abissali dell’animo umano, vedendolo dunque non nella sua individualità ma nella sua appartenenza all’umanità tutta e anzi all’animalità in genere da cui l’uomo, benché dotato di logos, non può separarsi. Queste due forze, secondo la geniale opera di Nietzsche, si ritrovano a dialogare con equilibrio perfetto nella tragedia antica che nasce, come dice il titolo del libro, proprio dallo spirito dionisiaco della musica, la musica del coro, ossia il centro originario della tragedia. Ascoltando il canto del coro, così potente e pervasivo, nelle prime tragedie, il pubblico veniva spinto, secondo Nietzsche, a entrare progressivamente in una dimensione orgiastica segnata dalla perdita del principium individuationis, ossia il principio che rende ogni essere umano un singolo esponente della sua specie, diverso da tutti gli altri. Nella musica del coro gli spettatori finivano per sentirsi parte di un tutto in cui smarrivano il senso della propria individualità, della propria storia e delle proprie piccole, contingenti, aspirazioni e paure.

NIETZSCHE DEDICÒ L’OPERA a Richard Wagner nell’auspicio di una trasformazione dello spirito europeo sotto il segno della sua musica dionisiaca. Ma non si trattava di rimpianto o di furia nostalgica. L’epoca sublime della tragedia antica era evidentemente perduta e poteva servire semmai da esempio. Oggi noi sappiamo che quel momento perfetto che comincia a decadere con la tragedia euripidea (proprio come aveva sentenziato Nietzsche che aveva visto in essa lo spirito del socratismo, ovvero la smania di conoscenza che si sostituisce alla mania e all’ebbrezza) costituì un unicum assoluto nella storia del teatro. Ai suoi albori lo spazio del teatro rappresentò infatti un momento di aggregazione comunitaria senza pari. Ogni cittadino della polis aspettava i concorsi tragici in onore di Dioniso per sentirsi parte di un tutto superiore, una dimensione a cui la singola individualità concorreva perdendosi in essa. Non è un caso che in molte tragedie antiche noi ritroviamo un’idea di umanità che spesso ci lascia a bocca aperta, perché si ha l’impressione che, in un’epoca di guerre ricorrenti, non esistano davvero nemici, ma soltanto esseri umani alle prese con dolori che li uniscono al di là di ogni particolare appartenenza.
Prendiamo per esempio la più antica tragedia che a noi sia stata restituita. Eschilo portò in scena I Persiani nel 472. È una data certa come certi e chiari sono i riferimenti storici della tragedia, che è del resto l’unica di quelle che noi leggiamo a non far riferimento a racconti mitologici.

LA SCENA È LONTANA DA ATENE. Siamo a Susa, residenza del re di Persia. Atossa, madre di Serse, è in attesa di notizie circa la battaglia di Salamina dove suo figlio ha tentato di portare l’attacco finale contro l’Ellade. Le notizie arrivano lentamente ma gli spettatori della tragedia conoscevano ogni particolare fin dall’inizio. Niente suspense nell’antichità. Quel che importava non era la sorpresa bensì il modo di raccontare la storia, il modo di creare un’identificazione e trasformare il fruitore dell’opera. In questo caso, le vicende erano state vissute dai cittadini in prima persona otto anni prima. Nel 480, infatti, dieci anni dopo il primo tentativo persiano in cui il padre di Serse, Dario, aveva visto le proprie armate sbaragliate sul campo di Maratona, i Persiani, passate le Termopili e la strenua resistenza dei celebri Trecento di Pelopida, invasero l’Attica, distrussero l’Acropoli di un’Atene completamente abbandonata, e si prepararono alla vittoria finale. Sono questi gli ultimi fatti che Atossa aspetta di conoscere.

MA COME TUTTI SANNO l’esito fu drammatico per gli invasori. L’intelligenza tattica dei greci spinse i Persiani nel golfo di Salamina – una trappola perfetta per le lente e ingombranti imbarcazioni tanto celebrate dal re persiano. La strategia astuta e geniale di Temistocle è stata decantata nei secoli e una delle fonti per ricostruirla è proprio questa tragedia, perché Eschilo era presente in persona e combatté strenuamente per difendere Atene e l’Ellade intera. Dunque il suo resoconto è decisivo. Ma il punto stupefacente è che ora, otto anni dopo aver contribuito alla vittoria, la sua prospettiva per raccontare quei fatti non è greca, bensì persiana.
Come dicevo, la scena infatti è a Susa (l’odierna Shush,in Iran). E molto interessante risulta l’ipotesi di alcuni studiosi secondo i quali la scena nel teatro di Atene fu costituita dalla vera e propria tenda che il re persiano abbandonò nella fuga. Una tenda regale e maestosa. Del resto, skenè, il greco da cui viene la parola «scena», significava proprio «tenda», perché originariamente questa tenda serviva agli attori per cambiarsi e prepararsi prima e durante lo spettacolo. Comunque sia di ciò, fra la scena e gli spalti dove il pubblico si assiepava per ore (le trilogie tragiche si concludevano con un dramma satiresco: si deve dunque immaginare una presenza a teatro enormemente più lunga di quella a cui siamo abituati oggi), stava lo spazio dell’orchestra, ossia il luogo della danza (orchèomai significava danzare), il luogo della musica dionisiaca. E in questo caso, il coro della tragedia è costituito dagli anziani consiglieri di Serse, consapevoli di una cosa che unisce tutti gli uomini a prescindere dalla loro origine, ossia che la hybris viene regolarmente punita dagli dèi. Quel peccato umanissimo di superare la propria umanità che noi siamo abituati a tradurre con «tracotanza», deve essere evitato se si vuole vivere serenamente a prescindere dalle circostanze che la contingenza e la sorte hanno previsto per noi.

È DIFFICILE OGGI RICOSTRUIRE la potenza trasfigurante di quel coro, un coro così paradigmatico per la tragedia in generale nel suo momento di massimo splendore. Della musica antica infatti abbiamo perso tutto. Ma possiamo comunque immaginare quel delirio dionisiaco in cui più che le parole e i ragionamenti prevaleva nietzscheanamente l’immedesimazione in un dolore umano, troppo umano. Un dolore che univa il greco e il non greco (il cosiddetto barbaro, ossia il balbuziente, il non parlante greco) e in cui il greco che partecipava al rito della tragedia si immedesimava perdendosi in quell’animalità che tutti ci unisce a prescindere dalle coordinate spaziotemporali in cui siamo nati e cresciuti. Le tragedie antiche ripetono costantemente questa idea. Un’idea che oggi, anche senza la vera musica dionisiaca delle origini, possiamo far vibrare per ritrovarci uniti nelle vicende che segnano le nostre esistenze. Magari osservando il dramma di chi ci circonda senza guardarlo dalla nostra prospettiva ma identificandoci in una posizione che non ci appartiene strettamente. Vivendo, dunque, quel dolore come se fosse il nostro. Perché poi tutto torna, perfettamente uguale, nella storia. E siamo tutti esseri umani sotto questo sole.

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SCHEDA: Al via oggi l’appuntamento di Sarzana

È dedicata al concetto di «comunità» la XV edizione del Festival della Mente che si apre oggi Sarzana e che si concluderà domenica. Tre giornate in cui più di 60 ospiti italiani e internazionali propongono incontri, letture, spettacoli, laboratori e momenti di approfondimento culturale, indagando i cambiamenti, le energie e le speranze della società di oggi. Tra gli ospiti di quest’anno: Marco Aime, Roberto Esposito, Jan Brokken, Michela Murgia, Maryam Madjidi, Cristiano Galbiati, Ian Goldin, Stefano Allievi, Massimiliano Valerii, Mario Cucinella, Marco Belpoliti, Alessandro Barbero e Matteo Nucci.

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