Cultura

Come intrappolare l’autonomia dei subalterni e le lotte di classe

Come intrappolare l’autonomia dei subalterni e le lotte di classeUna manifestazione del Combahee River Collective

Scaffale «La cattura delle élite» del filosofo Olúfémi O. Táíwò, per Alegre. Le ambiguità e i rischi delle guerre culturali e le politiche identitarie

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 2 novembre 2024

Le guerre culturali infuriano. Di solito sono confuse con la lotta per l’egemonia culturale di Gramsci. In realtà sono forme secolarizzate delle guerre di religione. A differenza dell’egemonia gramsciana, il loro effetto è rendere passive le masse, incartarle in scontri polarizzanti, spoliticizzare il conflitto, ridurre la lotta di classe a una questione economicistica oppure simbolica.

QUESTI EFFETTI sono stati analizzati dal filosofo nigeriano-statunitense Olúfémi O. Táíwò in La cattura delle élite. Come le identità oppresse vengono strumentalizzate dal potere (Alegre, pp. 139, euro 15). Táíwò è uno dei più attrezzati interpreti delle «politiche dell’identità» in cui si iscrivono le «guerre culturali» e ha chiarito un elemento fondamentale: oggi la politica non è riducibile a questo tipo di conflitto.

TUTTAVIA IL CONFLITTO «identitario» può essere letto come l’effetto della «cattura» da parte delle classi dominanti delle istanze di giustizia emerse dai subalterni, dagli sfruttati, dagli oppressi. Questo approccio è fondamentale per comprendere la logica del rovesciamento all’opera nelle «politiche dell’identità». Questa logica ha una storia e Táíwò la ricostruisce in maniera adeguata.

Nel 1977 il Combahee River Collective, un collettivo statunitense femminista e antirazzista, creò questo tipo di politica e intendeva fare una battaglia socialista, femminista, black e queer. Tra le affiliate c’era donne di ogni provenienza: latine, nere, asiatiche, bianche. Con «politica dell’identità» intesero un potenziamento della partecipazione politica delle donne contro il patriarcato, il razzismo, il capitalismo, l’omofobia diffusi tanto nella società statunitense, quanto tra i movimenti neri e bianchi.

ALLA CREAZIONE di questa critica delle identità costituite ha contribuito la parte più influente del femminismo radicale degli anni Sessanta e Settanta, a partire da Angela Davis. Si partiva da sé per diventare rivoluzionarie insieme. L’identità era politica sia nel senso che era costruita da altri, sia nel senso che avrebbe potuto essere trasformata in altro. Persone di identità diverse avrebbero trovato nelle lotte comuni per l’alimentazione, la casa, la sanità, la sessualità, il salario il principio di unificazione, non di esclusione come invece avviene nella società. Si rompeva sia con il patriarcato del movimento operaio, sia con il sessismo del comunitarismo nero. I principi erano quelli dell’internazionalismo, della solidarietà, della sorellanza.
Negli anni della contro-rivoluzione neoliberale, scrive Táíwò, sul vettore rivoluzionario creato dal Combahee River Collective, è stato impiantato un apparato di cattura: tanto le élite neoliberali capitaliste, quanto quelle reazionarie e neofasciste se ne sono appropriate al fine di erodere l’autonomia dei subalterni e rovesciarla in un surrogato simbolico identitario usato per normalizzare il conflitto.

COSÌ IL NEOLIBERALISMO «progressista» ha ribrandizzato le vecchie oppressioni con il linguaggio dei gruppi rivoluzionari. Così facendo è stata screditata la critica e sono state selezionate tra le minoranze i campioni della meritocrazia; cantanti, sportivi e imprenditori. Il populismo neoliberale di estrema destra ha strumentalizzato a sua volta questa operazione al fine di rafforzare la separazione razziale, sessuale e di classe. In mezzo soffocano i subalterni.

TÁÍWÒ DENUNCIA entrambi gli esiti e offre una visione di una politica egualitaria organizzata secondo principi democratici radicali. La sua proposta di «politica costruttiva» non mi sembra limitabile a una riproposizione di stanchi paradigmi del «populismo di sinistra». Si tratterebbe piuttosto di individuare una nuova prassi capace di creare un altro divenire co-rivoluzionario che scombini tanto le minoranze, quanto le maggioranze, e sia irriducibile alla grandezza trascendentale del «popolo». Se un collettivo femminista è all’origine del panico che domina oggi i dominanti, non è escluso che stia accadendo di nuovo.

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