Una delle vocazioni della propaganda è di rendere vero, a furia di ripetizione, quello che non lo è necessariamente. È un lavoro da fabbro: si tratta di eliminare il dubbio col martello per forgiare un solido senso comune. Si batte sul punto interrogativo fino a raddrizzarlo.

È solo in virtù di questo che il buonsenso, tornato a nuova vita grazie al governo e al ministro dell’Interno, si è imposto come valore positivo per antonomasia. Eppure il buon senso è, per l’appunto, solo un senso comune travestito, cioè una semplificazione spacciata per un’evidenza. È solo per insicurezza, poi, che al senso comune si aggiunge la bontà, quel buon spruzzato come essenza nell’ambiente per eliminare il cattivo odore.

Nell’autunno del 1811, lavorando al suo leggendario dizionario, Noah Webster definì il senso comune: «Normale, solido buonsenso… esente da influenze emotive o da sottigliezze intellettuali… senso equino». Non è la sintesi di un’epoca o il suo depositato: è ciò che ricorre con maggior frequenza. Trasportato nel 2018, è ciò che ha più visualizzazioni.

Si tratta, in fondo, di nient’altro che di un’indagine di marketing. È sufficiente un monitoraggio e un algoritmo, basta estrarre dai milioni di frasi scritte e pronunciate quella che torna con maggior costanza. E poi utilizzarla come fosse originale: i monitorati andranno in visibilio pensando che finalmente c’è qualcuno che la pensa come loro.

Invece di accorgersi che sono loro stessi a fornire la materia prima, sotto forma di like e di commenti; sono loro a scrivere il discorso che gli viene consegnato.
Quel discorso è oggi un gran cestone in cui si trova un po’ di tutto: un po’ di carità cristiana, una buona selezione di capri espiatori, cibo a volontà, buoni sentimenti, tracotanza, paternalismo, sfottò, il mare, colonne sonore impegnate e disimpegnate, i paesaggi, le montagne, il vino buono, l’anti-intellettualismo. Tutto ormai complessivamente trasversale.

Chi parla di fascismo di ritorno semplifica all’eccesso, cerca una sintesi ideologica che però funziona poco: questo è un algoritmo, combina quello che ha più occorrenze, mette insieme tutto quello che ha più share. E se ha share una frase, o un personaggio, o un cantante, di sinistra, perché no. Non importa che le cose e le affermazioni sembrino in contraddizione: è semplicemente un best of, sono i grandi successi di quello che milioni di persone, diverse tra loro, verbalizzano a tonnellate per scritto e oralmente.

Il trucco è pronunciare tutto l’elenco delle frasi come fosse originale e non una ripetizione. È la regola del Karaoke. Che sia ministro, presidente o avventore dentro un bar, basterà aprire la bocca e mettersi a cantare la canzone di successo. Nel mondo karaoke, come anni fa aveva intuito la scrittrice croata Dubravka Ugresic, al cantante basta prendere il microfono e tirare su la voce: le parole ci sono già tutte, c’è già la melodia, e dunque il successo è assicurato. Tutt’intorno si leverà un coro festante di persone.

La canzone dunque che ora va per la maggiore s’intitola Buonsenso. Al microfono si avvicendano veri esponenti del potere. Che non sia originale non importa, siamo in epoca di penuria di personalità. Per questo ci si accontenta di chi ha voglia di prendere il microfono e leggere le parole sullo schermo. Il bello, d’altra parte, è cantare la canzone tutti insieme.

Da sempre il potere fa cantare il popolo per non fargli sentire i morsi della fame, il dolore, le urla di chi sta male e il silenzio di chi muore. Su le mani e mani in alto; l’applauso, mi raccomando, alla fine dell’esibizione.