In una parola
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Come difendersi dai correttori automatici?

In una parola La rubrica settimanale su linguaggio e società. A cura di Alberto Leiss
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 13 settembre 2022

Ho appena scritto in un messaggio su whatsapp la parola «intendente», e lo spiritello maligno che alligna nelle viscere del cellulare o in qualche immateriale testa tra le nuvole misteriosamente collegata ai fatti miei corregge inesorabilmente in «intendete». Se non me ne accorgo subito farò un errore di senso nel mio per quanto futile testo.

Il primo termine è un sostantivo che significa più o meno funzionario amministrativo, oppure un certo tipo di ufficiale di stato maggiore, o ancora, in Francia ai tempi di Luigi XIV, un rappresentante dello Stato nelle province (dal vocabolario Treccani). Insomma, uno che «se ne intende», o che dovrebbe intendersene, e che esercita potere. L’altra parola è la seconda persona plurale del presente del verbo intendere, vale a dire: voi capite.

Io capisco la mia irritazione. Perché mai il cosiddetto correttore corregge una parola assolutamente giusta? Forse è meno statisticamente utilizzata di una che le somiglia? Come si permette di cambiare il senso di ciò che voglio scrivere? Ha l’algoritmo arrugginito? L’intelligenza artificiale che lo guida si è distratta? O non è affatto intelligente? È un’entità dispettosa?
Certo, so che potrei disattivare questi meccanismi. Qualcosa mi trattiene. Pigrizia digitale. Rassegnazione. Ma anche l’aspettativa che possa fare bene il suo mestiere: correggere gli errori!

Forse anche perché materializza e simboleggia per me la tendenza attuale a controllarci, a forzare i nostri pensieri e desideri, a imbottirci di messaggi, espliciti e occulti, rivolti non solo a consumare questo e quello, ma anche a farci pensare questo piuttosto che quello, ecc. Il tutto ottenebrato da una crescente stupidità pervasiva che mi pare ci stia portando a catastrofi spaventose.
Come reagire? Forse cercando relazioni con persone umane che possano aiutarci a correggere i nostri veri errori? (E magari noi i loro?)

L’ho pensato leggendo la lunga intervista di Aldo Cazzullo a Francesco Totti. Non sono un tifoso ma Totti, oltre che un bravissimo calciatore, mi sembrava anche un uomo simpatico. Chi gliel’ha fatto fare di mostrarsi in tutto il vittimismo piccino del solito maschio italico un po’ mammone? Forse pensava a vantaggi di tipo legale nella contesa con la moglie? Credo invece che avrebbe fatto meglio a ascoltare un eventuale amico-correttore che lo avesse bloccato alle prime frasi.

Una simile figura sarebbe assai utile, credo, anche al buon Enrico Letta. Prendiamo l’ultima sua battuta che gli ha attirato non poche critiche, soprattutto femminili e femministe, sui social ecc. Affermare che da una donna come Giorgia Meloni ci si può aspettare che attui «politiche maschiliste», vista la sua cultura politica e i tipi da cui è circondata, ci può stare. Ma perché aggiungere «Allora è molto meglio un uomo premier che porta avanti politiche femministe? ».

Il terreno di contesa scelto era già molto sdrucciolevole. Giorgia Meloni aveva detto che il suo eventuale diventare prima ministra sarebbe sfondare uno dei più spessi «tetti di cristallo», e che questo solo fatto avrebbe giovato alle donne. È un’affermazione non così semplice da contestare. Ma arrivare a dire che allora sarebbe meglio «un uomo premier» fa scattare inevitabilmente due retropensieri.

Forse Letta parla di se stesso? Non sembrerebbe il suo stile… Ma soprattutto: è evidente che la migliore risposta a Meloni, se non l’unica davvero convincente, sarebbe stata avere a sinistra una candidata donna più credibile di lei, quanto a «politiche femministe» e a tutto il resto. Era meglio glissare. Per me ho già la fortuna di un amico-lettore-correttore che infilzerà ogni mia sciocchezza.

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