Visioni

Come curare l’omosessualità in nome di Dio

Come curare l’omosessualità in nome di Dio

Al cinema «La diseducazione di Cameron Post», in sala il film di Desiree Akhavan premiato al Sundance. La storia di una ragazzina lesbica nell'America bigotta degli anni Novanta, spedita in una casa di cura del gender

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 31 ottobre 2018

L’incubo per Cameron detta Cam inizia la sera del ballo di fine anno scolastico. E non sono i vestiti tremendi con cui i poveretti sono costretti a agghindarsi, il rossetto spalmato come cemento sulle labbra, le ridicole pettinature vamp, le scarpe coi tacchi e la foto ricordo insieme ai ragazzi «cavalieri» per l’occasione. Ma è essere scoperta dal «fidanzato» in macchina mentre fa l’amore con la compagna di classe, migliore amica, di cui è molto innamorata. Che poi nel confine liquido della sessualità e del corpo dell’adolescenza non sarebbe così sconvolgente pensando ai coetanei grezzi e con brufoli. Ma in quella cittadina del Montana negli anni ’90 (non dissimili dal trumpismo presente) dove l’insegnante spiega ai ragazzi che «gli adulti», vanno la domenica in chiesa per rimediare ai peccati commessi alla loro età, diventa una catastrofe. Difatti la zia, religiosissima, spedisce la poverina orfana, in una casa di rieducazione, God’s Promise, variante per God’s Prison, il cui obiettivo è, appunto, «rieducare» i giovani ospiti, tutti gay o lesbiche, convincerli che l’omosessualità è un terribile errore – o meglio ancora non esiste – e renderli perfetti etero disperati in nome di Cristo.

VINCITORE al Sundance, di cui la sua regista, Desiree Akhavan (anche autrice della sceneggiatura con Cecilia Frugiuele) è una scoperta, La diseducazione di Cameron Post si ispira al romanzo di Emily M.Danforth (Rizzoli) con riferimento a quelle «terapie riparative» il cui «padre fondatore»è Jospeh Nicolosi – scomparso nel 2017 – molto care ai conservatori e agli omofobi americani e di tutto il mondo così come a quelle famiglie che per «correggere» l’omosessualità dei propri figli sono disposti a sacrificarne il cuore e il corpo in luoghi orribilmente concentrazionari – molti dei ragazzi sottoposti a questi metodi si sono suicidati o sono morti durante il trattamento.

NE ESISTONO anche in Italia di posti come questo, nonostante le accuse degli Ordini degli psicologi e psicanalisti mondiali riguardo la prassi discriminatoria e psicologicamente violenta – per ora in Europa sono vietati per legge solo a Malta. E questo film, distribuito con acume da Teodora, dovrebbero farlo vedere a scuola specie oggi, che nel nostro Paese l’omofobia e la repressione vengono praticamente proclamati dal governo.

AKHAVAN si mette sin dall’inizio accanto alla protagonista, per la quale trova la complicità di Chloe Grace Moretz (presto la vedremo in Suspiria di Luca Guadagnino) tracciando sui cambiamenti del suo viso e della sua fisicità, da spavalda a confusa e spaurita, il dolore di quel processo a cui viene sottoposta.
A dirigere l’istituto sono due fratelli, lei si è allenata su di lui che era gay e ora è «felicemente guarito». Tra quelle mura tutto è vietato, lettere, telefonate, letture, musica, ovviamente il sesso di qualsiasi gender sia, solo lo sport di Dio è permesso, e la frustrazione e l’angoscia, solleticate con ricatti e cattiverie. Si lavora per creare degli infelici, per accendere dinamiche relazionali di sospetto e denuncia, spingendo i ragazzi a odiare sé stessi per fare pressione sulla loro fragilità e sui loro affetti. Una i lobotomia che ne azzera desideri e vitalità rendendo la sessualità una malattia.

NEL RACCONTO dei giorni infernali, tra complicità e amicizie che comunque nascono – con Moretz ci sono Sasha Lane e lo stupendo Forest Goodluck, ragazzo nativo dalla doppia anima, maschile e femminile – la regia di Akhavan, sintonizzata sulla cifra del cinema americano indipendente un po’ «modello» Sundance, lascia fuori ogni retorica dei grandi gesti concentrandosi sui passaggi più piccoli, sui frammenti di esistenze interrotte che, nel loro dipanarsi, restituiscono in pieno la mostruosità fuoriosa di questa violenza. La stessa che si respira nel quotidiano presente, evidente, tragica, non banale, di cui fin troppo spesso si nega l’esistenza.

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