Disegno di Toti Scialoja tratto da «Animalie»
Disegno di Toti Scialoja tratto da «Animalie», a cura di Andrea Rauch, Grafis Edizioni, 1991
Alias Domenica

Come costruirsi una «disidentità»: Tommaso Giartosio rivisita suoni e nomi del lessico famigliare

Scrittori italiani «Autobiogrammatica», da minimum fax
Pubblicato 7 mesi faEdizione del 31 marzo 2024

Silenzio. Il vento scorre su uno spiazzo di terra. È disseminato di ossa lucide e spolpate. Un gruppo di primati vi si aggira inquieto. Cerca cibo. Il sole sorge sopra la montagna. Improvvisamente, il tamburo del Così parlò Zarathustra di Richard Strauss fa il suo ingresso in scena e la sconvolge: Kubrick immaginò così la genesi del genere umano, il primo atto che permise ai nostri antenati di impugnare un osso e usarlo come arma per difendersi, ferire e domare. Da quel momento la pagina di questa storia (la nostra storia) non fu mai più bianca.

Nella vita di ognuno di noi, è accaduto più o meno lo stesso, se è vero (ed è vero) che l’ontogenesi ricapitola la filogenesi, riverberando nella storia individuale la storia della specie. L’infante apprende i primi rozzi suoni fintanto che, con l’esercizio, non si educa l’apparato fonatorio a dar luogo a una voce articolata secondo un alfabeto e una grammatica condivisa. Ma nell’idea di origine è implicita anche l’idea di fine, che assomiglia assai più a una pagina tutta nera, ricoperta di uno strato omogeneo di china che assorbe e cancella una vita. Sul suo letto di morte, il pittore Kazimir Malevich fece appendere il Quadrato nero, l’opera che egli considerava «il punto zero» da cui la pittura sarebbe dovuta ripartire.

Tra una pagina bianca e una pagina nera si sbroglia la storia del protagonista di Autobiogrammatica, l’ultimo libro di Tommaso Giartosio, scrittore romano classe 1963 (minimum fax «Nichel», pp. 443, euro 19,00). Giartosio è una delle voci del noto programma radiofonico Fahrenheit, poeta, saggista e fine prosatore, il quale dà qui prova, in un’opera dal taglio esibitamente autobiografico («Satommasochista», per la precisione), di volersi raccontare attraverso giochi di parole, calembour, freddure che contraddistinguono la verve del protagonista. Egli non lascia nulla al caso, ma con puntiglio nomina, novello Adamo, il mondo che lo circonda, sin dalla prima parola «che germina dal silenzio»: «il linguaggio – scrive Giartosio – esiste in quanto si contrappone al silenzio. È difficile per noi concepire un mondo umano ancora privo della facoltà di parlare: eppure dobbiamo voltarci indietro e immaginare il momento in cui la prima parola venne pronunciata».

Autobiogrammatica è un romanzo di formazione raccontato in prima persona e corredato da disegni, pagine di diario, immagini che dialogano con le parole, anzi con la parola – che è quanto riconnette il presente dello scrittore al suo passato, ai momenti centrali della sua esistenza. Non c’è indulgenza per l’autofiction, oggi pervasiva, e non c’è bugia mescolata a verità: chi dice «io» è sincero, la sua parola è fededegna. Il lettore sente di potersi lasciar andare tra le braccia di questo affabulatore, mentre espone le cicatrici del proprio lessico famigliare. Nel libro c’è un senso giovanile, doloroso e felice, di estraneità al mondo che lo circonda. E c’è la scoperta di sé e della propria sessualità. Come quando a diciassette anni, accoccolato in una tenda, accanto al corpo dell’amico Filippo, il protagonista osò accarezzargli il braccio, ma non fu capace poi di pronunciare le parole giuste: «Quanta felicità avremmo trovato (e anche quanta infelicità, non ne dubito, ma entrambe vere) se solo avessimo scambiato mezza parola su questo – su ciò che, non essendo stato detto allora, tuttora non ha un nome; e si può indicare solo con un vocabolario tecnico che appartiene a altre stagioni della vita, al momento oggettivante e scientistico, a quello militante, a quello provocatorio, a quello disilluso – omosessuale, omofilo, gay, queer, checca, frocio, frocia persa – mentre non sapremo mai, mai, come ne avremmo parlato allora, con quali allusioni e metafore, con quale cruda proprietà di termini! Come ne avremmo scritto, con quale primo alfabeto, in quale lingua di Adamo…».

L’opera, divisa in due parti (Presa di parola e Abbecedario), è costruita intorno al rapporto che il bambino intrattiene con il Silenzio, la Parola, la Voce, e quindi l’articolazione del proprio Alfabeto in risposta alla parola del Padre e a quella della Madre: a quell’«óla» paterno, che innervava senza risposta le stanze dell’appartamento, e che, sempre uguale, segnalava non solo il suo ritorno a casa, ma anche le sue origini venete, o la sua predisposizione all’ordine e al rigore che una lunga carriera militare gli aveva imposto; oppure alla parola straniante «pompino», che la madre un giorno aveva sentito pronunciare, non capendone l’esatto significato e svelando l’ingenua ritrosia e il rossore delle proprie guance.

È solo così che l’azione distruttrice del tempo, «con il suo ambio di dromedario», può fermarsi. Non si tratta di preziosi frammenti di una lingua morta e ritrovata; eppure, queste parole famigliari sono una «verità-foglia che torna a scorrermi davanti ogni volta che viene pronunciata», ogni volta che erompe dal silenzio, e diviene ricordo e lacuna, parola che nomina ciò che non c’è più, pagina bianca divenuta nera, come sul diario del protagonista ogni volta che muore un amico o una persona cara.

Ma Autobiogrammatica non è solo un viaggio randagio dentro sé stessi, nell’idioletto della propria famiglia, tanto caro a Natalia Ginzburg (più volte richiamata nel testo, al pari di tanti altri scrittori del Novecento). È qualcosa di più: è un viaggio dentro una generazione di uomini nati intorno agli anni sessanta, divenuti adolescenti durante i settanta, infine adulti negli anni del «riflusso». È la costruzione di una «disidentità», di un «disappartenere»: insomma, «la creazione di una distanza» sgorgata anch’essa da un folto gruppo di parole. Vicino al canapé del salotto (che, come tutti gli arredamenti, aveva in famiglia un nome francese) è custodito un quadernetto dove annotare gli usi linguistici più singolari. È forse lì, scrive Giartosio, che va collocato «lo spunto iniziale, il peccato originale (o forse banale) del mio impegno di lessicografo». Ed è lì che è nato questo libro, il suo più maturo e sentito perché vero, intimo e profondo come le parole che ci abitano, il linguaggio che ci piega: «immaginare il proprio futuro – scrive l’autore, pensando a quando lui stesso si trasformerà in una pagina nera – fa parte della lenta costruzione del proprio passato. E allo stesso modo, riaccendere la fiammella del passato non può che tracciare i fili di fumo del futuro».

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