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Come ali di farfalla, Milena Vukotic

Come ali di farfalla, Milena Vukotic

Incontro Tra cinema danza e teatro, senza mai fermarsi

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 9 maggio 2020

Quando si pensa a Milena Vukotic, la prime parole che vengono in mente sono «soavità» e «delicatezza». Certo, in tanti continuano a identificarla come la dolce e remissiva Pina Fantozzi («dai capelli color topo e l’alito fognato»), ma è stata abile nel districarsi tra i tentacoli insidiosi della macchietta fine a se stessa. Infatti Milena, da sempre, sta continuando col cinema e col teatro, infaticabile più che mai. Dopo le repliche di Un autunno di fuoco, commedia graffiante di Eric Coble, ha terminato le serate speciali, l’ultima al Teatro Sociale di Stradella con Enoch Arden (melologo di Alfred Tennyson musicato da Strauss) coadiuvata dal maestro Guido Scano e dal compositore Livio Bollani

Può raccontare qualcosa dell’approccio che ha avuto con Alessandra, protagonista del suo ultimo lavoro a teatro, «Un autunno di fuoco».
Alessandra è un personaggio molto interessante perché è all’insegna della vita, checché se ne possa pensare. (La donna si barrica in casa con una pila di molotov perché contraria a trascorrere il resto dei suoi anni in una casa di riposo. Il figlio, però, riesce a entrare nell’abitazione attraverso una finestra, nda). Essendo stata pittrice in passato, ritrova la sua passione, il suo anelito per l’arte, più precisamente per il museo Guggenheim di New York, dove portava Chris, il figlio. Attraverso lui, Alessandra ritrova la sua gioia di vivere. È una donna che ha sentito il bisogno di libertà.

Recentemente è tornata in scena con «Enoch Arden», melologo affrontato l’ultima volta nel 2014.
Il melologo è una forma inventata nell’800: l’interprete non canta ma recita dei brani assieme a un accompagnamento musicale. Enoch Arden, che unisce Tennyson e Strauss, è ormai un classico. Durante la serata, poi, abbiamo anche fatto Leggendo Alcools, quattro melologhi su testi dell’omonima raccolta di poesie di Guillaume Apollinaire.

Una banalità, ma imprescindibile: non si è stufata di Pina Fantozzi?
Assolutamente no. Pina ha avuto una sua continuità all’interno della maschera fantozziana che rimarrà nella storia del cinema. Di conseguenza, far parte di questa favola è stato molto creativo per me. Per il resto, fortunatamente, ci sono persone che seguono anche il resto della mia carriera. Ma non sono affatto stanca di Pina: finché le persone mi fermeranno per affetto legato al personaggio, sarà sempre arricchente.

Con Anna Mazzamauro rappresentate la femminilità dell’universo fantozziano, si è mai immaginata come possibile signorina Silvani?
Mah, bisogna vedere come uno percepisce la Silvani (ride, nda). A parte poi il fatto che Mazzamauro ha fatto tanti lavori completamente staccati dalla saga di Fantozzi. Comunque no, non l’ho mai pensato. La femminilità è molto relativa e non ci sono degli schemi così netti e identificabili.

Non ha mai avuto parole fuori posto, sempre delicata e discreta, anche quando compare nuda accanto a Carlo Verdone in «Bianco, rosso e Verdone», o con Lino Banfi nelle commedie scollacciate di inizio anni 80, oppure quando è comparsa su Playboy…
I personaggi che si interpretano non sono per forza collegati a volgarità o a negatività. Come per la femminilità, la volgarità è relativa: uno può essere estremamente volgare senza fare niente, come il contrario. Playboy rappresenta una delle mie cose fuori dall’ordinario. All’epoca, Angelo Frontoni mi disse: «Ma tu sei sempre ritratta in maniera brutta, proviamo a rappresentarti in altro modo». Dopodiché, propose le foto che mi scattò alla rivista, chiedendo ad Alessandro Blasetti di scrivere qualcosa di accompagnamento per queste immagini a proposito di quello che può essere definito «bello» e «brutto». Non è che ho fatto le foto senza senso. Fa tutto parte di un gioco che bisogna sostenere mentre facciamo questo meraviglioso lavoro.

Tra i tanti titoli che compongono la sua filmografia, ne spunta uno in particolare, «Venga prendere il caffè da noi» di Alberto Lattuada.
È stata una bellissima avventura, con Lattuada abbiamo girato proprio nel luogo narrato dal romanzo di Piero Chiara, Luino. È stato anche il primo incontro con Tognazzi, col quale sono rimasta legata artisticamente come moglie in Amici miei (ride). Con Angela Goodwin eravamo veramente sorelle nella realtà, legate da una profonda amicizia. Forse questo è stato il primo film di successo cui ho preso parte, perché c’erano tanti aspetti che coincidevano con l’Italia di quel periodo.

Un altro ruolo interessante è quello di Tina, la domestica sordomuta di Shelley Winters in «Gran bollito» di Mauro Bolognini.
Bolognini è un regista che mi è molto caro, con lui avevo già girato Arabella, nel 1967. Gran bollito, purtroppo, non ha ricevuto il giusto riconoscimento che avrebbe meritato perché è ricco di personaggi curiosi (dalla «Bloody Mama» Shelley Winters al terzetto en travesti formato da Max von Sydow, Alberto Lionello e Renato Pozzetto, nda) e così intrigante. Con Shelley Winters è stato un bell’incontro, tanto che mi invitò all’Actors Studio di New York dove insegnava. Con Tina è stata una bella possibilità di interpretazione perché sono muta, e quindi è tutto giocato sulle espressioni facciali e mugugni vocali.

Nel 1983 ha condensato ben 6 film: «Nostalghia» di Tarkovskij, «La casa del tappeto giallo» di Lizzani, «Fantozzi subisce ancora» di Neri Parenti, «Lo specchio del desiderio» di Beineix, «Ars amandi – L’arte di amare» di Borowczyk.
Non ci ho mai fatto caso (ride, nda), faccio sempre tante cose assieme che non ci bado. Erano comunque delle partecipazioni abbastanza ridotte.
Nel centenario della nascita di Fellini, non le possiamo non chiedere un suo ricordo. Per lui è stata pure colf e martire nello stesso film, Giulietta degli spiriti.
Ho cambiato la mia vita per Fellini. Vivevo a Parigi, studiavo già teatro in francese, oltre che danza. Dopo aver visto La strada, ho capito che qualcosa stava cambiando dentro di me. Ho lasciato tutto e sono venuta a Roma da mia madre e ho cercato di avere un incontro con lui. E così è cominciato tutto. Ho partecipato a tre film suoi (Boccaccio ’70, Giulietta degli spiriti e Tre passi nel delirio, nda) e per il resto ho avuto questo grande sostegno di considerarlo un amico. Ecco, la sua amicizia (e quella di Giulietta Masina) è stata una delle cose più preziose dalla mia vita.

Abbiamo parlato di ultimi lavori a teatro. Al cinema quando la rivedremo?
Ho partecipato da poco a un lavoro, al quale tengo molto. È #SelfieMania, film a 5 episodi prodotti da Italia, Russia, Inghilterra, Austria e basati sull’uso del telefonino, in quest’epoca dove ormai si sono sorpassati i confini. Io sono, con Andrea Roncato, nel blocco intitolato L’amore… nonostante tutto, esordio come regista dell’attrice Elisabetta Pellini.

A proposito di selfie, non ha alcuna pagina social…
Giusto quando ho fatto Ballando con le stelle, si offrì la produzione di guidarmi e illustrarmi tutto, ma solo per quel periodo. Non voglio Facebook o altro, mi confonderebbe ancora di più la vita (ride, nda).

Che spettatrice è? Cosa le piace guardare?
Frequento pochissimo le sale, purtroppo. Non ho mai tempo, ma cerco di vedere quello che più mi incuriosisce. E sa, sono messo pessimista di tante altre persone sulla situazione del cinema italiano, perché abbiamo tanti talenti e dobbiamo sostenerli. Bisogna avere più coraggio e dare più fiducia alle persone che devono emergere.

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