Quanti dei turisti che si recano a Roma per ammirare le vestigia del glorioso Caput mundi riescono davvero a farsi un’idea della topografia della potente metropoli, collocando i monumenti oggi visibili in un immaginario spazio antico? Se tutti conoscono (perlomeno grazie al cinema hollywoodiano) la funzione originaria del Colosseo (7 milioni di visitatori nel 2022), più difficile è, per i non addetti ai lavori, barcamenarsi nella cosiddetta Area Archeologica Centrale, quella che fa perno, appunto, sui Fori Imperiali e sul settore dell’Anfiteatro Flavio.

AL DI LÀ DELLA RETORICA – abusata e stucchevole – della «grande bellezza», in base alla quale l’estetica delle rovine è ricompensa sufficiente per la vista e per l’intelletto, i resti della Roma imperiale emergono – talvolta nella loro magnificenza, talvolta nella miseria dell’abbandono – nel caotico palinsesto della città moderna.
Il motivo per cui il fulcro della Roma antica è percepibile perlopiù attraverso fascinosi ma spesso incomprensibili lacerti non è dovuto soltanto all’intensa urbanizzazione dei secoli successivi ma anche a un evento epocale e «violento», ovvero alla costruzione della Via dell’Impero (poi Via dei Fori Imperiali) voluta da Mussolini. Lo «stradone», inaugurato nel decennale della marcia su Roma, aveva lo scopo di creare una comunicazione visiva diretta tra il palazzo del Duce in Piazza Venezia e il massimo monumento di quella «romanità» imperiale al quale il fascismo voleva riallacciarsi: il Colosseo. La realizzazione del tracciato, che comportò poderosi sventramenti, lo sbancamento della collina della Velia e la demolizione del quartiere Alessandrino, mise in luce le piazze di Cesare, di Traiano, di Augusto e di Nerva, tagliandole però obliquamente. Un patchwork – abusivo e indecifrabile – di lussuosi marmi, al quale già Antonio Cederna voleva porre rimedio con la creazione di un Parco esteso fino all’Appia antica.

DELL’INCOMPIUTO PROGETTO di «sistemazione» dell’Area Archeologica Centrale, che ha attraversato differenti fasi politiche della capitale ma anche, più in generale, del nostro Paese, dà conto in maniera sintetica ma efficace Carlo Pavolini nel volume Che fare dei Fori? (Robin edizioni, pp. 180, euro 20). L’autore, ex funzionario archeologico presso le Soprintendenze di Ostia e di Roma nonché docente universitario presso l’Università della Tuscia – non si limita però a ripercorrere la genesi del cosiddetto Progetto Fori, germogliato tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 dalla necessità di salvaguardare le memorie di età classica tutelando altresì la salute dei romani e dei visitatori. Pavolini, forte delle sue solide competenze scientifiche ma anche del suo impegno politico nell’ambito della gestione e della valorizzazione dei beni culturali, offre al lettore una riflessione ricca di stimoli e di sfide quanto mai urgenti da cogliere. I temi trattati sono molteplici – dallo smorzarsi di un dibattito al principio animato persino sulla stampa nazionale al fallimento della commissione paritetica Mibact-Roma Capitale del 2013-2014, dall’ambiguità della legge Biasini del 1981 alle dannose incongruenze della riforma Franceschini.

L’AMPIEZZA delle problematiche discusse dall’autore ruota attorno alla questione, cruciale, della cancellazione di Via dei Fori Imperiali, la strada «fascista» che ha causato l’attuale affastellamento, a partire dalle piazze romane, di strutture di epoche diverse, dal Medioevo al Tardo Rinascimento. Un paesaggio reso ancora più confusionario dagli scavi stratigrafici avviati negli anni ’90 e dal sistema di passerelle e rampe che hanno sostituito la Via Alessandrina. Nel superare – senza condanne ma con intelligente vena provocatoria – il silenzio degli archeologi e l’incapacità di quest’ultimi di stabilire un dialogo proficuo con gli architetti per dare finalmente «valore urbano» all’Area Archeologica Centrale, Pavolini espone la sua personale proposta per restituire alla collettività una fruizione ragionata e al contempo «spontanea» della Roma imperiale. Perché, se il Foro non potrà tornare ad essere il Campo Vaccino dipinto da Rossini, le rovine non servano più da mera scenografia per ideologie vecchie e nuove ma siano «strumento» pubblico per una crescita culturale democratica e condivisa.
Il libro sarà presentato oggi a Roma alle 16.30 presso la sede dell’Istituto nazionale di archeologia e storia dell’arte in piazza di san Marco. Oltre all’autore, interverranno Pietro Giovanni Guzzo, Eugenio La Rocca e Claudio Parisi Presicce.