Come affrontare l’emergenza climatica attraverso le nuvole
L'intervista Parla il chimico dell’atmosfera Federico Bianchi che interviene oggi al festival BergamoScienza
L'intervista Parla il chimico dell’atmosfera Federico Bianchi che interviene oggi al festival BergamoScienza
Le nuvole vanno, vengono e ogni tanto si fermano, cantava Fabrizio De André. Ma prima di tutto, le nuvole nascono. La nascita di una nuvola è un processo complicato ed è strettamente legato alla qualità dell’aria e decisivo per comprendere l’evoluzione futura del clima. A BergamoScienza ne parlerà oggi il chimico Federico Bianchi, professore all’Istituto per la ricerca sulla Terra e l’atmosfera dell’università di Helsinki. Nel 2017, Bianchi è stato premiato come miglior giovane ricercatore dalla European Geoscience Union, la principale organizzazione degli scienziati che si occupano di scienza della Terra, per i suoi studi sul processo di formazione delle nuvole.
Le nuvole: non si tratta semplicemente di acqua che evapora e condensa?
L’acqua da sola non condensa così facilmente. Le goccioline si aggregano intorno a particelle volatili in grado facilitarne la condensazione. Questi nuclei di condensazione li chiamiamo «semi». Sono aerosol, cioè particelle fini sospese nell’atmosfera.
Da dove provengono gli aerosol?
In parte, vengono immessi direttamente nell’atmosfera dalle attività industriali e dai trasporti. Ma oltre il 50% degli aerosol si può formare attraverso reazioni chimiche che coinvolgono altri gas presenti nell’atmosfera. Fino a poco tempo fa si riteneva che all’origine degli aerosol che si formano in quota vi fosse l’acido solforico, di origine antropica o vulcanica. Nel 2016, al Cern, in un esperimento denominato Cloud, abbiamo scoperto che gli aerosol possono formarsi anche a partire da altre molecole organiche, grazie all’interazione con i raggi cosmici provenienti dallo spazio.
Al Cern di solito si studiano le particelle elementari. Cosa ci va a fare un chimico dell’atmosfera?
I raggi cosmici sono protoni ad alta velocità provenienti dallo spazio. Per studiare l’interazione tra le molecole dell’atmosfera e i raggi cosmici, ci serviva una sorgente di protoni da inviare in una «camera» in cui controllare i vari parametri fisici, come la concentrazione di ozono e di altri composti chimici. Allora ci siamo rivolti al Cern, dove hanno gli acceleratori di particelle adatti ai nostri esperimenti. Invece dei raggi cosmici naturali, su cui abbiamo poco controllo, abbiamo utilizzato i protoni accelerati al «sincrotrone protonico» del Cern. Poi ho confermato i risultati portando gli strumenti ad alta quota: sulla Jungfraujoch in Svizzera, al campo base dell’Everest e in cima alle Ande boliviane.
La formazione delle nuvole ha anche un impatto sul clima?
Le nubi riflettono la luce solare e in questo modo frenano il riscaldamento climatico. Se aumentano i nuclei di condensazione, le gocce che formano la nube sono più leggere e la nube è più persistente, con un maggiore effetto di raffreddamento del clima. Ma l’impatto delle nuvole è ancora poco conosciuto perché non sappiamo molto su ciò che avveniva prima dell’era industriale. Visto che le nuvole si possono formare a partire da composti organici e non solo dall’acido solforico, anche le foreste potevano favorirne la formazione. Proprio per questo, ho appena ottenuto un finanziamento europeo per un progetto denominato Chapas, che studierà la formazione delle nuvole nel periodo pre-industriale.
Qualcuno ha interpretato le vostre scoperte in senso negazionista: a riscaldare il clima potrebbero essere le variazioni storiche dei raggi cosmici, non l’attività umana.
Secondo me sono quei famosi 0.01% di scienziati che non vogliono credere al cambio climatico. Per chiarire le cose, in un articolo su Science abbiamo sottolineato che la dipendenza della formazione delle nuvole dalle fluttuazioni dei raggi cosmici è minima, assolutamente non paragonabile ai gas serra.
Se l’inquinamento facilita la formazione delle nuvole che frenano il riscaldamento globale, dobbiamo scegliere se migliorare la qualità dell’aria o affrontare la crisi climatica?
È un problema reale. Ad esempio, nella pianura padana la qualità dell’aria sta migliorando e, di conseguenza, la nebbia sta sparendo perché ci sono meno nuclei di condensazione. Non possiamo certo fare a meno di migliorare la qualità dell’aria della pianura padana. Ma c’è ancora molto lavoro da fare per capire quale sia l’impatto dei vari fattori in gioco.
Grazie ai suoi studi si potrebbero «seminare» artificialmente le nuvole per far piovere su territori aridi?
Esperimenti di questo tipo sono già in corso, per esempio nella penisola arabica. Ma è difficile capire se le nubi si formino per l’intervento umano, perché manca un termine di paragone: ogni nuvola è diversa dall’altra e capire cosa sarebbe successo senza lo stimolo artificiale è un’impresa.
Oggi si parla anche di «geoengineering», cioè di immettere artificialmente aerosol nell’atmosfera per riflettere la luce solare e raffreddare l’atmosfera. Le sembra una strada percorribile?
Personalmente, mi tengo lontano da queste ricerche. Lanciano un messaggio politicamente pericoloso perché ci illude di poter limitare il riscaldamento globale senza modificare le nostre abitudini e continuando a emettere gas serra. Si tratta in ogni caso di interventi molto costosi e, una volta avviati, diventerebbe impossibile interromperli perché l’effetto del raffreddamento svanirebbe rapidamente. Infine, un intervento locale avrebbe ripercussioni sul clima globale. Ma si tratta di progetti che coinvolgono solo una minima parte della comunità scientifica.
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