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Come affrontare le teorie del complotto

Come affrontare le teorie del complottoDecalcomania, 1966 – Magritte

Scienza I complottisti hanno tutti caratteristiche comuni. Comprenderle (e autocomprendersi) è il modo migliore per smontare bufale che alterano la realtà e offrono false sicurezze

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 28 marzo 2020

L’altro ieri è diventato virale ed ha suscitato allarme il video di un servizio del TgR Leonardo del 2015 su un coronavirus ingegnerizzato in Cina.

Il servizio faceva riferimento ad uno studio  pubblicato sulla rivista Nature sulla proteina SCH014, considerata responsabile della Sindrome Respiratoria Severa Acuta (SARS).

È nata, così, una teoria del complotto secondo la quale il coronavirus che causa Covid-19 è stato creato in laboratorio dai cinesi, anche se la stessa Nature aveva pubblicato questo mese  la seguente nota relativa allo studio del 2015: “Siamo consapevoli che questo studio viene utilizzato come base per teorie non verificate secondo le quali il nuovo coronavirus, che causa COVID-19, è stato progettato in laboratorio. Non ci sono prove che questo sia vero; gli scienziati ritengono che un animale sia la fonte più probabile del coronavirus”.

Nonostante questo, il video è circolato su WhatsApp con ampia diffusione.

La teoria del complotto si è diffusa anche in rete, condivisa da Matteo Salvini su Twitter e presentata come spiegazione illuminante della pandemia di coronavirus, con tanto di pallini rossi e punti esclamativi cattura-attenzione.

Una teoria del complotto può avere conseguenze negative e dannose e, quando prende piede, rischia di infestare la rete, informatica e sociale.

Le teorie del complotto si basano su meccanismi non affidabili di rappresentazione della realtà e non sempre sono il risultato di false credenze genuinamente sostenute. Possono, infatti, essere costruite, architettate e amplificate intenzionalmente per ragioni politiche e strategiche.

Stephan Lewandowsky, psicologo e presidente del dipartimento di psicologia cognitiva  all’Università di Bristol, e John Cook, scienziato cognitivo e ricercatore al Center for Climate Change Communication della George Mason University, hanno studiato le cause e le dinamiche delle teorie del complotto, ed hanno creato una sorta di manuale di istruzioni per “navigare” il complottismo.

Le teorie del complotto sono contraddistinte da sette caratteristiche principali, riassunte in inglese con l’acronimo CONSPIR (in inglese coincide con le lettere iniziali di ogni caratteristica).

La prima è l’elemento di contraddittorietà; chi crea e propone le teorie del complotto può contemporaneamente credere ad idee che si contraddicono a vicenda. Non importa che il ragionamento sia incoerente, ma importa solo evitare ad ogni costo di credere alla versione ufficiale dei fatti.

La seconda caratteristica, infatti, è la diffidenza (preesistente) proprio nei confronti della versione ufficiale dei fatti; qualsiasi elemento non rientri direttamente nella teoria non va considerato. Il complotto diventa la realtà, è il resto ad essere una distorsione.

Questo si lega ad una terza caratteristica, il sospetto: “c’è qualcosa che non va”, è la realtà ad essere un inganno e non viceversa.

Un altro aspetto comune a coloro che sostengono le teorie del complotto è un sentimento di vittimismo, accompagnato dalla mania di persecuzione: il complottista si presenta come vittima di una persecuzione universale. Allo stesso tempo, diventa “antagonista coraggioso” che affronta i “malvagi cospiratori” (ovvero tutti coloro che sono al di fuori della teoria del complotto) e finisce per avere una percezione di sé ambivalente: vittima ed eroe contemporaneamente.

Quinta caratteristica: molto spesso le teorie del complotto sono volutamente “immuni” a prove fattuali, Cook e Lewandowsky le definiscono “auto-sigillanti”. E anche se le prove esistono, vengono reinterpretate in modo tale da farle rientrare nel quadro del complotto stesso. Quanto più forti sono le prove a sfavore della teoria, tanto più i complottisti hanno necessità che venga creduta la loro (falsa e costruita) versione dei fatti. Esempio: “il cambiamento climatico non esiste, è un complotto e gli scienziati che dimostrano che esiste e che è stato prodotto dall’uomo ne fanno parte”. Un complotto nel complotto, insomma.

Spesso, la manipolazione della realtà è così ingannevole da rendere le teorie una plausibile alternativa alla realtà. Più il complotto è credibile, più è pericolosa la sua diffusione.

Il meccanismo di reinterpretazione delle prove si lega anche alla sesta caratteristica: i complottisti strumentalizzano le “coincidenze”, reinterpretano le casualità per integrarle nel complotto stesso.

Nulla accade per caso, tutto deve indicare che la teoria è l’assoluta verità: ogni dettaglio, anche il più irrilevante, viene intrecciato in uno schema d’inganno che possa rientrare alla perfezione all’interno del complotto.

L’ultima caratteristica rappresenta l’aspetto più strategico di queste teorie: “l’intento nefasto” o malafede. “Le motivazioni alla base di ogni complotto sono ritenute nefaste”, scrivono Cook e Lewandowsky. “Le teorie del complotto non prevedono mai che i complottisti abbiano intenzioni benevole”.

Ma perché le teorie del complotto si diffondono così facilmente?

Secondo Cook e Lewandowsky, le persone che si sentono vulnerabili e impotenti tendono ad offrire un terreno fertile per la diffusione delle teorie del complotto.

Inoltre, queste teorie permettono di “affrontare” circostanze di minaccia immediata attraverso un capro espiatorio: un “grande evento” deve per forza avere una “causa importante”. In quest’ottica, è un modo per spiegare eventi improbabili e fuori dall’ordinario: una sorta di meccanismo di coping (barcamenarsi, ndr) che offre ad alcuni un modo alternativo per “gestire l’incertezza”.

La dimensione di incertezza è, infatti, fondamentale affinché le teorie del complotto possano avere successo. Possono essere utilizzate come strumento “retorico” per sfuggire a conclusioni “scomode”, per “contestare” le idee politiche ufficiali e sono un ingrediente inevitabile dell’estremismo politico.

Studi di “de-radicalizzazione”, quindi, possono fornire indicazioni su come “disarmare” i complottisti.

I social media tendono ad alimentare i meccanismi delle teorie del complotto.

La mancanza dei tradizionali “gate-keeper” (ad esempio i giornali, ndr), scrivono Cook e Lewandowsky, è uno dei motivi per cui la disinformazione si diffonde più facilmente e velocemente  online, spesso spinta da account falsi, bot o troll.

Allo stesso modo, chi “consuma” le teorie del complotto è incline a mettere “mi piace” e a condividere post complottisti su Facebook.

Cook e Lewandowsky, identificano due modalità principali per far fronte a queste teorie: il prebunking e il debunking.

La prima si basa sull’importanza di giocare d’anticipo, cercando di disinnescare in partenza i meccanismi dei complottisti: “Se le persone vengono rese consapevoli degli errori di ragionamento nelle teorie, possono essere meno vulnerabili e sviluppare una capacità di resistenza ai messaggi complottisti”.

Questo processo avviene in due modi: attraverso l’avvertimento esplicito di un complotto imminente che rischia di indurre in errore, oppure attraverso la confutazione degli argomenti della disinformazione.

Il debunking invece, che in inglese si definisce come “smascherare finzione o falsità”, agisce attraverso i fatti, la logica, le fonti e l’empatia.

In altre parole, il debunking ricorre al factchecking, a un’informazione accurata che ha la capacità di smentire, a una logica che possa spiegare le tattiche ingannevoli e i ragionamenti errati, a una demistificazione che smascheri l’assenza di credibilità dei complottisti, e a un’attenzione “empatica” nei confronti dei target delle teorie del complotto.

Il debunking, tuttavia, può rivelarsi un’arma a doppio taglio poiché potrebbe rafforzare le teorie involontariamente.

Incoraggiare le persone a pensare in modo analitico può costituire uno strumento efficace per smantellare la falsa narrazione della realtà sulla quale si fondano le teorie del complotto.

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