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Colonie, l’incomprensione degli indignados israeliani

Colonie, l’incomprensione degli indignados israelianiDaphni Leef, leader degli indignados israeliani

Israele Anche Daphne Leef, leader del movimento J14, sottovaluta la gravità della colonizzazione non solo per i palestinesi ma anche per gli israeliani

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 6 agosto 2013

Daphne Leef qualche settimana fa ha aperto un piccolo ufficio in un palazzo di Tel Aviv, in Via Ben Yehuda. Spoglia e disordinata, questa unica stanza è il quartier generale della leader di J14, il movimento degli indignados locali che due anni fa cominciando con un campo di tende in Viale Rothschild a Tel Aviv riuscì in pochi giorni a mobilitare centinaia di migliaia di israeliani stanchi del carovita, di affitti insostenibili, di abitazioni dal costo stratosferico. Raduni e cortei che furono segnati dal suicidio di un manifestante che si diede fuoco come il tunisino Mohamed Bouazizi. Il caro alloggi resta al centro delle battaglie della 27 enne Leef, impegnata in questi giorni a promuovere proteste contro la legge di bilancio e il ministro delle finanze Yair Lapid, abile come molti suoi colleghi europei solo a tagliare le spese sociali per «tenere i conti in ordine». «Lapid ha costruito il successo elettorale del suo partito (Yesh Atid) proprio sulle proteste degli israeliani che chiedevano una politica economica nuova e misure per proteggere le famiglie sempre più in affanno», ci dice Leef che tiene a precisare la sua «distanza» dalla destra e dalla sinistra. «Socialismo e capitalismo hanno fallito, occorre lanciare una nuova politica, per la gente e non a beneficio dei partiti e degli uomini di potere», proclama ripetendo slogan in voga anche dalle nostre parti, che tradiscono una conoscenza alquanto limitata di problemi di eccezionale importanza. Certo anche la giovane età conta, non basta il piglio deciso dell’attivista israeliana.

Rispondendo alle nostre domande Leef ribadisce più volte che Lapid è un «ingannatore che presto sarà smascherato» e che il premier Netanyahu «porta avanti una linea totalmente sbagliata che non tiene conto dei bisogni reali della gente». Non sa spiegarci però, se non in termini vaghi, perchè la protesta «della gente» e del movimento J14 si sia spenta dopo le grandi manifestazioni del settembre 2011 a Tel Aviv e in altre città. Più di tutto l’attivista israeliana evita di entrare in quelle che definisce «le decisioni di politica estera» del governo, ossia la linea di Netanyahu nei confronti dei palestinesi sotto occupazione e le ricadute che essa comporta nella vita del cittadino israeliano medio. Eppure, facciamo notare, i miliardi di dollari spesi a sostegno delle politiche di occupazione hanno garantito infrastrutture e case a basso costo ai coloni insediati nella terra di un altro popolo, sottraendo risorse fondamentali per assicurare servizi, abitazioni e lavoro a chi ne ha più bisogno in Israele. «Non mi occupo di politica estera, del conflitto con i palestinesi e non intendo rispondere a domande sui negoziati e cose simili», ci dice perentoria Leef. Ammette tuttavia che «sarebbe stato meglio» investire in Israele le decine di miliardi di dollari spesi dal 1967 a oggi per i coloni.

L’incapacità di comprendere la vastità e la gravità del problema della colonizzazione per le sorti non solo dei palestinesi ma anche per il loro Paese, è alquanto diffusa tra gli israeliani «liberal», quelli che, come Daphne Leef, proclamano che farebbero volentieri a meno dell’occupazione. Lo conferma, ad esempio, l’assenza di reazioni significative alla decisione presa domenica dal governo Netanyahu di approvare una nuova mappa di aree di «priorità nazionale» che include, nelle centinaia di località scelte, anche 20 insediamenti colonici in Cisgiordania e comunità abitate da ex coloni di Gaza. Con la decisione le aree individuate sono eleggibili per ottenere aiuti statali nei settori dell’edilizia, delle infrastrutture, dell’educazione, della cultura e della sicurezza. Non solo ma 15 delle 20 comunità che potranno ottenere lo status di «priorità nazionale» sono roccaforti di “Focolare Ebraico”, partito ultranazionalista (fondamentale per la maggioranza di governo) guidato da Naftali Bennett e schierato contro la creazione di uno Stato palestinese. Esiste peraltro un accordo sottobanco per placare l’irritazione di “Focolare Ebraico” per la ripresa dei negoziati tra Israele e Autorità nazionale palestinese. Netanyahu, riferiva a fine luglio il giornale Maariv, avrebbe offerto al partito di Bennett l’approvazione di oltre 5mila nuove case per coloni nei quartieri di Gerusalemme Est e negli insediamenti in Cisgiordania, in cambio del suo sì al rilascio di 104 prigionieri palestinesi detenuti prima degli Accordi di Oslo: mille case subito, altre 4.500 nei prossimi mesi.

Certo, il governo ha spiegato che la ragione della scelta di inserire nella lista della “priorità nazionale” diversi insediamenti in Cisgiordania è dovuta solo a “motivi di sicurezza” ma i fatti dicono altro. E’ una scelta ideologica, che rappresenta anche una “risposta” alla recente decisione dell’Unione europea di interrompere qualsiasi progetto di cooperazione con le colonie e che costerà non poco a Israele. La Banca di Investimento Europea dovrebbe bloccare prestiti e finanziamenti per centinaia di milioni di euro destinati a enti pubblici, ministeri, banche e imprese private che operano nelle colonie.

In ogni caso gli insediamenti dei nazionalisti più oltranzisti ottengono garanzie di ogni tipo e generosi finanziamenti mentre due comunità di ebrei ultraortodossi (divenuti avversari del governo in carica) sono state cancellate dalla lista. Le località della periferia del Paese quei fondi possono solo sognarli. A maggior ragione se sono centri abitati da palestinesi con cittadinanza israeliana. Resta isolata la protesta del movimento «Peace now» che ha spiegato come la nuova mappa approvata dal governo «incentiva e incoraggia i cittadini israeliani a emigrare negli insediamenti, specialmente in quelli più isolati che non saranno inclusi in alcun accordo di pace (con i palestinesi)». Ammesso che l’inconsistente e sbilanciato negoziato israelo-palestinese, ripreso su insistenza degli Stati Uniti, porti davvero a un accordo.

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