Angelino Alfano sarà oggi in Israele e nei Territori occupati. La sua visita almeno fino a ieri sera non aveva raccolto l’interesse dei mezzi d’informazione locali, israeliani e palestinesi. La scarsa attenzione per l’arrivo del ministro degli esteri dell’Italia, che pure è alleata di Israele e sponsor dell’Anp, evidenzia il peso leggero del nostro Paese nelle vicende mediorientali. Alfano incontrerà il premier Netanyahu, il presidente Rivlin e il capo dell’opposizione laburista Herzog, quindi andrà a Ramallah per un colloquio con il ministro degli esteri palestinese Riyad al-Malki, infine sarà ricevuto dal leader dell’Anp Abu Mazen. Poi ripartirà. Della sua visita non resteranno molte tracce. L’Italia è, nella migliore delle ipotesi, solo comparsa nel grande film sulla questione israelo-palestinese che intenderebbe produrre Donald Trump.

Grande attenzione, al contrario, sta ricevendo la prima missione a Gerusalemme e Ramallah di Jason Greenblatt, l’inviato speciale di Trump. «Abbiamo avuto un largo e positivo scambio di vedute sull’attuale situazione», ha detto Greenblatt dopo aver incontrato ieri Abu Mazen. «Abbiamo discusso di come procedere verso la pace, costruendo le capacità delle forze di sicurezza palestinesi e fermando l’istigazione». Pare che il faccia a faccia abbia lasciato soddisfatto Abu Mazen che, fanno sapere dai vertici dell’Anp, da quando Trump lo ha invitato ad andare alla Casa Bianca appare ottimista sulle possibilità «di lavorare bene con la nuova Amministrazione Usa» dopo lo sconforto iniziale. E un deputato arabo israeliano alla Knesset, Ahmad Tibi, sostiene che Netanyahu non dormirà bene quando conoscerà i particolari della conversazione del 10 marzo tra Trump e Abu Mazen. Gli analisti palestinesi sono decisamente meno entusiasti e ancora di meno lo sono gli abitanti dei Territori occupati. Secondo un sondaggio pubblicato ieri dal Palestinian Center for Policy and Survey Research solo il 9% dei palestinesi crede che Trump svolgerà un ruolo positivo per la ripresa del negoziato.

In Israele intanto si è placata l’euforia per l’elezione di Trump a presidente. Beninteso, il tycoon era e resta un alleato di ferro dello Stato ebraico ma non pare disposto a dare carta bianca alla destra israeliana al governo. Greenblatt lunedì ha avuto una lunga riunione con Netanyahu che ha riguardato soprattutto gli insediamenti coloniali. Non è emerso un accordo. Lo ha confermato lo stesso premier israeliano ieri sera, durante una conferenza stampa. Due giorni fa Netanyahu, secondo Times of Israel, ha spiegato che il suo governo vuole costruire ovunque entro i «city limits» di tutte le colonie, triplicando così le dimensioni della colonizzazione in Cisgiordania. E vuole il via libera a nuovo insediamento, per insediarvi gli abitanti dell’avamposto ebraico di Amona evacuato a inizio anno. Da parte sua, l’amministrazione Trump ha finora dato luce verde all’espansione delle colonie solo a Gerusalemme Est, come Pisgat Zeev, Neve Yaakov e Gilo. Fuori Gerusalemme invece «c’è un problema» avverte Galei Tzahal, la radio delle forze armate. Trump frena, per ora, confermando i dubbi sulla «utilità» dell’espansione delle colonie che aveva espresso a Israel HaYom, prima dell’incontro alla Casa Bianca con Netanyahu il mese scorso. Allo stesso tempo, secondo le voci che arrivano da Washington, sarebbe pronto ad organizzare, forse ad agosto o a settembre, una conferenza di pace regionale, con Paesi arabi, Israele e palestinesi, che certo non dispiacerà al premier israeliano. Netanyahu ripete che per il mondo arabo, o almeno per le petromonarchie sunnite, la questione centrale non è più quella palestinese ma l’Iran, nemico anche di Israele.