Colonialismo, utilizzo ideologico e razzista dell’Antico
Classico e Novecento Sergio Brillante documenta e analizza (facendo i nomi) ambiguità e forzature degli antichisti rispetto alle «campagne africane» dell’Italia liberale e fascista: «Anche là è Roma», un saggio dal Mulino
Classico e Novecento Sergio Brillante documenta e analizza (facendo i nomi) ambiguità e forzature degli antichisti rispetto alle «campagne africane» dell’Italia liberale e fascista: «Anche là è Roma», un saggio dal Mulino
Di contro alla velocità con cui negli ultimi anni cresce il numero dei classicisti italiani chiamati a intervenire nel dibattito sulla ‘decolonizzazione’ degli studi classici, stupisce l’attenzione relativamente scarsa finora dedicata al tema del rapporto tra la letteratura greco-romana (e l’idea del ‘classico’) e la storia del colonialismo europeo, nonché la rarità di interventi relativi alla peculiare storia del colonialismo italiano.
«Anche là è Roma» di Sergio Brillante (il Mulino, pp. 224, euro 20,00) viene a colmare questo vuoto con un intervento scientifico importante e necessario per la comprensione del rapporto tra l’appello a un’eredità classica romana e un ideale di superiorità razziale in un’Italia formatasi come stato nazionale in tempi relativamente recenti e afflitta fin dai primordi della sua storia nazionale da un complesso di inferiorità nei confronti delle potenze coloniali europee. Insieme a una monografia di Samuel Agbamu attualmente in pubblicazione per Oxford University Press, e a una miscellanea contenente gli interventi della conferenza su Classici e Colonialismo Italiano (tenutasi al Museo delle Civiltà di Roma nel giugno del 2023), Brillante propone di spostare l’asse dei dibattiti odierni per confrontare con cognizione di causa la storia degli utilizzi ideologici e razziali della nostra disciplina. Si tratta di una storia che, come da lui argomentato, gli italiani hanno faticato, e faticano ancora, a voler affrontare in modo critico.
Il libro si articola in quattro temi cronologicamente distinti, coincidenti con quattro diverse fasi del colonialismo italiano, e più o meno equamente divisi tra il periodo del colonialismo cosiddetto liberale e quello dell’epoca fascista. Nella prima metà, ci si sofferma sull’indomani della sconfitta di Dogali (1887), e nello specifico sull’uso dell’antichità negli epitaffi a commemorazione dei caduti e feriti della battaglia; ci si muove poi, nel secondo capitolo, verso l’utilizzo del classicismo nelle argomentazioni favorevoli e contrarie alla campagna di Libia del 1911-’12; nella seconda metà del volume, viene trattato prima il rapporto tra la retorica classicista di un ‘ritorno alle origini’ nei tentativi di valorizzare Tripolitania e Cirenaica nei primi anni venti, e successivamente le connessioni tra le iniziative dell’Istituto di Studi Romani, nato contestualmente all’epoca fascista, e la campagna etiope del 1935-’36.
Emerge il diverso utilizzo dell’antichità greca rispetto a quella romana. In confronto agli altri colonialismi europei, il colonialismo italiano è unico nel poter utilizzare il proprio territorio per stabilire un immaginario rapporto ereditario con Roma antica, con cui gli Italiani, già dai tempi di Dogali (e sfortunatamente ancora oggi) pensano di poter vantare un ‘presunto legame genetico’. Una delle storie raccontate in «Anche là è Roma» (titolo originato discorso di Pascoli del 1911 La grande proletaria si è mossa, in occasione della campagna libica) è lo sviluppo di questo legame ideologico, culminante negli anni del fascismo e nella retorica della campagna etiope, a discapito dell’antichità greca, più ricorrente invece negli anni dell’Italia liberale, come nel distico di Pascoli a imitazione di Simonide, o nell’utilizzo delle Termopili nelle commemorazioni per i caduti di Dogali. Per quanto ci siano alcuni casi isolati (come quello di Giacomo de Martino) di teorizzazione di una fusione tra Greci e Romani in territorio coloniale, prevale la retorica della Grecia come culla culturale e di Roma come potenza militare, che utilizza i suoi mezzi di conquista per tramandare quella cultura greca che aveva a sua volta spiritualmente colonizzato la potenza colonizzatrice.
Il discorso sulla Cirenaica, antica colonia greca, è filtrato dalla preponderante figura del filologo Wilamowitz, il quale in una conferenza berlinese del 1927 critica sia il malgoverno romano della regione in età senatoria, sia la nomina da parte di Traiano del generale berbero Lusius Quietus a domare la rivolta giudaica del 117 d.C. Brillante ricorda che Wilamowitz sosteneva il monopolio della ‘razza’ germanica per la comprensione dello spirito greco; come argomentato dalla classicista americana Johanna Hanink, sia la retorica coloniale tedesca sia quella britannica hanno spesso fatto leva su una presunta maggiore affinità del nord Europa con il pensiero greco, di cui i Greci moderni erano visti come non degni eredi. Nel caso dell’Italia, un simile sentimento di superiorità da parte dei rappresentanti delle potenze coloniali europee si insinua anche nell’utilizzo dell’antichità greco-romana nella ‘corsa all’Africa’. Nei tentativi di appellarsi ai testi antichi per rivalutare la fertilità di Tripolitania e Cirenaica, vengono falsamente attribuite a queste regioni caratteristiche proprie della Tunisia, sarebbe a dire di quel territorio che rappresentava l’antica vittoria dei Romani sul temibile impero cartaginese e che invece la ‘nuova Italia’, nonostante i suoi appelli alle vittorie degli Scipioni, si era lasciata ‘rubare’ dalla Francia nel cosiddetto ‘Schiaffo di Tunisi’ del 1881. Un interessante spunto di riflessione viene dunque dato dallo studio del rapporto tra le implicite gerarchie tra paesi del nord e sud Europa e l’intersezione storica della ‘corsa all’Africa’ con quella della rivendicazione identitaria del mondo classico.
Nel caso degli epitaffi per i caduti di Dogali, Brillante parla dell’appello all’antichità greco-romana come a ‘un luogo non conflittuale dell’immaginario collettivo’, specialmente in confronto al possibile utilizzo di episodi della storia italiana risorgimentale. Procedendo nella lettura, conflittualità evidenti (forzature ideologiche, contraddizioni argomentative) emergono proprio con il progredire dell’aggressività coloniale italiana, specialmente nell’utilizzo disattento, o volutamente politico, di testi che parlano di Africa antica, quali l’excursus etnografico del Bellum Jugurthinum di Sallustio, o le etnografie africane di Plinio il Vecchio e Pomponio Mela. Brillante mostra come l’immaginario dell’antichità greco-romana evolva come territorio conflittuale di ideologia collettiva di pari passo con l’evoluzione del colonialismo italiano, e con il suo confrontarsi con gli altri colonialismi europei. Viene dunque da chiedersi: in che modo possiamo utilizzare questa storia per riflettere su come gli studi classici siano invece diventati, specialmente nei recenti dibattiti sulla ‘decolonizzazione’, proprio un luogo centrale di conflittualità ideologica? Non è forse anche oggi una chimera pensare di poter affrontare lo studio dell’Africa antica in modo oggettivo e depoliticizzato?
«Anche là è Roma» è strutturato come una storia di personalità specifiche, e di scelte individuali. In un momento storico in cui si tende molto in accademia a parlare in termini di vaghe ‘ideologie’ o ‘correnti’, questa attenzione ‘filologica’ al contesto storico e personale degli antichisti chiamati in causa, come anche l’enfasi sulla necessità di documentare il rapporto tra classici e colonialismo, è un monito salutare contro facili generalizzazioni. A parte Wilamowitz e pochi esempi di classicisti francesi (Henri-Irénée Marrou, Jérôme Carcopino), Brillante presenta una storia degli antichisti italiani e del loro ruolo negli anni dell’Italia coloniale. Emergono vividamente le personalità di Ruggiero Bonghi, Achille Coen, Ettore Ciccotti e Carlo Galassi Paluzzi. Personalità più note, quali Pascoli, D’Annunzio, Carducci o, tra gli accademici, Gaetano De Sanctis ed Ettore Pais, sono presenti ma non prendono il sopravvento. Un giovane Momigliano è presentato nel tentativo di promuovere la conoscenza della cultura numidica antica, per quanto sotto l’egida dell’ellenismo, e nella sua remissività nel rispondere alle critiche dell’Istituto di Studi Romani.
Si legge dietro la storia di tante personalità un filo rosso di un’opposizione degli antichisti a episodi specifici della storia coloniale che difficilmente si potrebbe oggigiorno identificare come un’istanza ‘anti-colonialista’: Bonghi crede in una gerarchia razziale e culturale, e reputa l’Africa una ‘massa informe e immaneggevole’, pur sostenendo una difesa culturale di Abissini e Arabi; Gaetano Salvemini, Coen, Ciccotti denunciano le falsificazioni attribuite ai testi antichi nella retorica sulla fertilità di Tripolitania e Cirenaica, come gli sperperi di denaro per la campagna libica, ma non mettono in discussione la legittimità dell’Italia a costruirsi il proprio impero coloniale, né dedicano alcun pensiero alla realtà vissuta dai libici. Viene da chiedersi, sin dall’inizio del libro, in cui leggiamo ad esempio che l’inaugurazione dell’obelisco ai caduti di Dogali venne chiusa alla massa probabilmente per ‘evitare manifestazioni di segno contrario’, se non ci sia ancora molto da scavare in termini di rapporto tra gli antichisti italiani e una vera e propria opposizione al progetto coloniale, che pure esisteva in quegli anni. Emerge poi, a tratti e un po’ in sordina, la presenza di alcune donne in una storia di appropriazione ideologica in cui il mito della Roma imperiale viene esplicitamente presentato come un mito di ‘virilità’: si menziona Clelia Anti Vinciguerra, archeologa e moglie di Carlo Anti, che accompagnò Wilamowitz in Cirenaica; e una serie di allieve di Pietro Romanelli a cui nel 1935 viene affidata la redazione delle schede delle pubblicazioni periodiche per la Bibliografia dell’Africa Romana, ma di cui ‘è impossibile precisare i nomi’. Nel capitolo di chiusura, si menziona Mariella Cagnetta, autrice nel 1950 di Antichisti e impero fascista, il cui anticolonialismo emerge in modo così vistoso in confronto ai suoi colleghi che viene da interrogarsi più a fondo sulle intersezioni tra colonialismo, razzismo e questioni di genere.
Nella chiusa del volume, è in particolar modo apprezzabile la richiesta di Brillante di spostare l’asse del dibattito da una vaga idea di ‘decolonizzazione’ pedagogica all’introduzione delle istanze proprie di un ‘anticolonialismo’ e di una ‘presa di posizione… attiva, costante, consapevole, critica’. «Anche là è Roma» ci permette di fare enormi passi avanti in questo senso, e spero stia a inaugurare l’inizio di una conversazione di cui, a mio parere, abbiamo appena iniziato a sfiorare la punta dell’iceberg.
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