Collezione virtuale di oggetti per celebrare i fasti dell’italiano
Giuseppe Antonelli, «Museo della lingua italiana», Mondadori Il libro è organizzato su tre piani (antico, moderno, contemporaneo): 15 sale, 60 icone in totale: dal placito capuano alle faccine
Giuseppe Antonelli, «Museo della lingua italiana», Mondadori Il libro è organizzato su tre piani (antico, moderno, contemporaneo): 15 sale, 60 icone in totale: dal placito capuano alle faccine
Se ce lo assicura uno storico della lingua possiamo crederci. «Mai il livello di scolarizzazione degli italiani è stato così alto come oggi e mai come oggi l’italiano è stato parlato (e anche scritto) da tutti gli italiani». Parola di Giuseppe Antonelli, che dedica una stanza del suo Museo della lingua italiana (Mondadori, pp. 368, € 33,00) alla scuola. E se Francesco D’Ovidio, centocinquanta anni fa, lamentava che la maggioranza degli scolari superavano le scuole ed entravano all’Università, nei pubblici uffici e in Parlamento senza saper evitare i più ovvi errori di ortografia, dobbiamo se non rincuorarci almeno accettare di buon grado che la piena padronanza della lingua è stata ed è tuttora dominio sicuro per ben pochi individui. Dunque le querimonie quotidiane sull’imbarbarimento della nostra lingua vanno ridimensionate e gli ‘errori’ accolti come fenomeni fisiologici in un organismo vivo e dinamico qual è quello linguistico, destinato a incessanti mutazioni dovute all’uso. Alla fenomenologia della lingua italiana Antonelli dedica un Museo virtuale, uno spazio disposto idealmente su tre piani, corrispondenti ai tre periodi dell’italiano (antico, moderno e contemporaneo) e organizzato in 15 sale, per un totale di 60 oggetti, ovvero un aspetto specifico, a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo.
L’italiano è un serbatoio da cui cavare mille racconti, mille tessere che vanno a costruire un mosaico che di fatto rappresenta l’Italia tutta, nella sua storia e nell’avvicendarsi di usi, costumi e istituzioni. Ciascuna sala è aperta da un’immagine-simbolo, la fotografia di un documento o di un oggetto (il placito capuano, il telefono Ericsson Skeleton, il baule di un emigrante…). Costruito con l’intento principale di offrirsi quale libro di lettura e non di studio, il volume si presenta come un oggetto esso stesso da sfogliare, guardare e leggere anche a capriccio. Ogni occasione è buona per introdurre una curiosità (le indicazioni bibliografiche e le sezioni di approfondimento tecnico sono confinate in riquadri che possono essere oltrepassati senza perdere il filo del discorso).
Antonelli tiene desta l’attenzione del suo lettore grazie a una scrittura piana, con predominio della paratassi e frequenti intrusioni del registro colloquiale e parlato («gli ultimi raggi di sole sbrilluccicavano sulle acque dell’Arno»), registro che del resto è andato imponendosi anche nello stesso italiano, come si vede dai testi delle canzoni, a cominciare dal «Volare, oh oh» di Modugno. Il linguista non può non dare rilievo agli apporti legati, nell’italiano contemporaneo, alla diffusione di nuovi mezzi di comunicazione (radio, tv, pubblicità, cellulare, internet), e alle nuove realtà socio-economiche, come l’«aziendalese» che ha preso il posto del burocratese.
La traiettoria della lingua scritta disegna una parabola significativamente simmetrica: partito dal pittogramma ed evoluto verso segni fonetici di natura sempre più complessa, il linguaggio scritto negli ultimi decenni sta virando nuovamente verso l’immagine: le «faccine» non chiedono quasi alcuna competenza ‘linguistica’.
Nella storia dell’italiano ci sono momenti di splendore e di penombre. C’è stato un tempo in cui l’italiano era ben padroneggiato da qualunque europeo colto: Mozart, Goethe e Carlo V usavano con disinvoltura una lingua che nei secoli ha primeggiato nella terminologia delle arti figurative, della finanza, della marineria, della moda e della cucina. Elisabetta I si intratteneva con i dignitari italiani e conversava in ottimo italiano. Altri tempi, quelli: «Ve la immaginate, oggi, Elisabetta II che si mette a disquisire in un forbito italiano durante la visita di un nostro ministro o ambasciatore?». In altri momenti invece è l’italiano a mutuare termini da altre lingue, come mostrano le sezioni dedicate agli orientalismi, agli arabismi, ai francesismi, per arrivare all’attualità degli anglicismi.
La scelta di associare un aspetto della trattazione a un oggetto concreto suggerisce l’dea che l’intera operazione di allestimento di questa mostra virtuale risponda all’esigenza di porsi come interlocuzione forte con il lettore anche non specialistico, ma anche di rappresentare il fatto linguistico come sintesi dinamica tra l’individuo e la realtà materiale nella quale egli si muove. La fotografia di un banco di legno, tipico delle scuole elementari della prima metà del Novecento, quella del Modello P101 Olivetti, come pure il baule del migrante impongono una riflessione sulla crucialità degli strumenti che veicolano una lingua e ne favoriscono l’apprendimento e la diffusione.
Si esce da questo Museo persuasi che la lingua è una sostanza plastica e duttile, sulla quale restano impressi i segni delle istituzioni, dei commerci, dei rapporti di forza tra culture, ma anche dell’alternarsi delle pratiche economiche, produttive, culturali. L’analisi del linguaggio, per dirla con Valéry, vuol dire fare coscientemente ciò che prima è stato fatto senza troppa coscienza. Perciò ragionare sulla lingua significa ragionare sulla struttura del pensiero. Dai lenti buoi dell’indovinello veronese siamo arrivati all’istantaneità delle emoticon: il nume cui tanto il pensiero quanto il linguaggio sacrificano con sempre maggiore devozione è infatti proprio la Velocità.
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