Collettivo Flatform, incrocio di sguardi con il paesaggio
Flatform, frame da «La radice del vento è l’arte»
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Collettivo Flatform, incrocio di sguardi con il paesaggio

Intervista Gli artisti dell'ensemble raccontano la mostra visibile al Pac di Milano
Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 23 luglio 2022

Storia di un albero è l’opera di Flatform presentata nell’ambito dell’esposizione collettiva Performing Pac. Take me to the place I love allestita al Pac di Milano (visitabile fino all’11 settembre). Fondato nel 2006, Flatform è un collettivo di artisti con sede a Milano e Berlino che, nel suo lavoro, privilegia l’uso dell’installazione e del film.

Le opere che realizza sono raffinatissime. Il loro aspetto formale è caratterizzato da un controllo quasi ossessivo di tutti gli elementi che le costituiscono (luce, suono, immagine e movimento), da un uso sapiente delle tecniche adottate, da un lavoro certosino di post produzione e di composizione delle immagini.

Situandosi tra il cinema sperimentale e l’arte contemporanea, la produzione di Flatform è stata presentata sia nei più importanti film festival internazionali sia in prestigiose istituzioni e musei in tutto il mondo. Dal punto di vista narrativo, il collettivo privilegia da sempre il racconto di fenomeni naturali ambientati nel paesaggio e in contesti periferici, questioni quanto mai attuali che verranno affrontate anche nella conversazione che segue.

Cominciamo con «Storia di un albero», la videoinstallazione di cui presentate una versione site specific nell’ambito dell’esposizione al Pac di Milano: potete raccontarci la genesi di questo lavoro?

Storia di un albero nasce con l’intento di cambiare alcune delle regole, e le relative modalità espressive, che stanno alla base della ritrattistica nell’ambito della storia dell’arte occidentale. In primis quella di essere l’incrocio di due sguardi, l’incontro di due soggetti umani, la persona ritratta e chi guarda quella rappresentazione. Nel nostro progetto, al centro del ritratto c’è una quercia millenaria, un organismo vivente non umano. Pensante ma non cosciente. Unitario ma molteplice. Nel senso che l’individualità di un albero è sempre frutto di una moltiplicazione di stati della pianta: in essa si trovano sempre alcuni resti di quello che è stata.

E questa molteplicità non poteva che essere restituita dal flusso delle immagini in movimento tipiche del film, non da un’unica immagine pittorica. La molteplicità delle vicende cui ha assistito nel corso dei suoi mille anni di vita, viene tradotta nel film attraverso la presenza dei suoni di quegli avvenimenti, così come delle musiche e dei tanti linguaggi, tra i quali l’Arberesh, il Griko, l’Yiddish, il Romanes, che hanno attraversato il suo habitat. Nel caso dell’installazione appositamente pensata per una delle sale del Pac di Milano, il film si inserisce in un ambiente sul cui pavimento in parquet di quercia del quale il Pac è rivestito, viene inciso l’intero storyboard del film.

Il rapporto con gli elementi naturali lo ritroviamo nell’installazione sul vento, inauguratasi di recente presso l’Exchiesetta di Polignano a Mare (Bari). In cosa consiste questo progetto?

La radice del vento è l’arte è il titolo della mostra di cui stiamo parlando. In quest’opera ambientale, alcune piante di bambù mosse dal vento fluttuando occultano e disvelano alcune pitture e una scultura. Il movimento delle fronde degli elementi vegetali, dei quali la Exchiesetta è disseminata, richiede un certo sforzo per ricomporre nella sua totalità l’immagine delle opere presenti dentro la chiesetta.

In questa installazione sia le opere che i vegetali concorrono nell’intestare al vento, alla sua mutevole ed eterea natura, il ruolo di deus ex machina: non l’arte, non le piante, ma un elemento aleatorio, all’apparenza vuoto e privo di forma come appunto è il vento, detiene il controllo sulla nostra conoscenza degli elementi presenti.

Abbiamo voluto creare una narrazione cinematografica all’interno di un’opera non filmica. Cioè, attraverso l’azione del vento che produce un movimento, mai identico, sui vegetali, lo sguardo sull’intera installazione si dipana come davanti a un film, ha un suo svolgimento: il movimento cangiante delle piante, contrastivo sulle opere, determina un flusso di visione simile a quello cinematografico.

Tornando indietro di qualche anno, si può dire qualcosa sul film che avete girato nel 2018 sull’isola di Funafuti, atollo polinesiano di Tuvalu, dove avviene un particolarissimo fenomeno naturale?

Il progetto, partendo da un effetto apparentemente naturale – l’improvviso allagamento di una terra – ma in realtà causato dalla scellerata e artificiosa azione dell’uomo sulla natura, ci ha permesso di riflettere sui sottili rapporti che intercorrono tra lo stato dell’attesa e quello della sorpresa. Il film mescola senza soluzione di continuità un fluire di azioni, sia umane che del paesaggio, tra lo stato di siccità del suolo e quello di allagamento della stessa identica porzione di quel suolo.

Elemento centrale del vostro lavoro sono, da sempre, i fenomeni naturali, mentre la figura dell’uomo risulta marginale, talvolta inesistente… è così?

Noi non pensiamo che in natura l’elemento umano abbia di una maggiore rilevanza rispetto a quello animale o vegetale. Inoltre, riteniamo che il vecchio adagio di Rousseau -osservare le differenze per scoprire le proprietà – sia sempre valido, e non solo parametrandolo sul genere umano.

Ragionare sulla natura nella sua diversificata complessità significa per noi anche cercare di non separare quello che riguarda la soggettività umana da ciò che contraddistingue il mondo esterno. In qualche modo, ci sentiamo molto vicini all’intento di Ulrich nel romanzo di Musil, per il quale l’uomo senza qualità è fatto di qualità senza l’uomo.

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