Era duro, Colin Meads, forse il più duro di tutti. Nessuno come lui ha incarnato il rugby neozelandese negli anni che hanno preceduto l’avvento del professionismo.

Per 133 volte ha indossato la maglia degli All Blacks, disputando 55 test match in un’epoca nella quale un giocatore disputava non più di tre-quattro test l’anno.

Per trovare un altro con più presenze nella storia dei «tuttineri» bisogna fare un salto di quarant’anni: Richie McCaw, 148 caps, ma questa è tutta un’altra storia, roba da professionisti.

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COLIN EARLS MEADS, detto «Pinetree» (il pino), se n’è andato il 20 agosto scorso a Te Kuiti, nella sua contea di Waikato, isola del Nord. Aveva 81 anni e un anno fa gli era stato diagnosticato un tumore al pancreas.

Nelle ore che hanno seguito la sua morte, davanti alla porta di casa di molti neozelandesi sono comparsi palloni da rugby, un modo per onorare la memoria di colui che nel 1999 una consultazione pubblica aveva proclamato «il giocatore neozelandese del secolo».

Era nato in campagna da una famiglia di allevatori di pecore. Lì era cresciuto insieme ai genitori e ai tre fratelli, imparando il mestiere e muovendo i primi passi sui campi da rugby.

Buone qualità tecniche ma soprattutto una gran forza e un corpo che sembrava scolpito nella pietra: 1,94 per 100 e passa chili. Nel 1955, a diciannove anni, l’esordio con King Country: una meta, un drop e una carriera spianata che lo porterà di lì a poco a vestire la prima volta la maglia degli All Blacks durante il tour del 1957 in Australia. È una delle più forti squadre di sempre che mette insieme, tra il 1965 e il 1970, una striscia di 17 vittorie in altrettanti test match, record superato soltanto dai recenti All Blacks.

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COLIN GIOCA seconda linea, all’occorrenza anche in terza. È un avanti feroce, determinato, capace di emergere dalle mischie con il pallone in mano scrollandosi gli avversari di dosso.

Fa paura, dicono, è intimidatorio soprattutto nelle rimesse laterali. Lui racconterà: «A quei tempi le rimesse avvenivano senza un corridoio tra le due linee, eravamo spalla a spalla con l’avversario. E non c’erano tre fottuti arbitri come adesso ma soltanto uno, per cui quando cercavi di saltare c’era sempre qualche bastardo che ti pestava il piede per impedirti di salire». Insomma, bisognava arrangiarsi, con le buone o con le cattive, e «Pinetree» preferiva di gran lungo le seconde.

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Meads godeva di pessima reputazione ma era rispettato. Aveva un suo codice, un proprio senso della lealtà e ti faceva prima capire come dovevano andare le cose. Ian Eliason, seconda linea di Taranaki, raccontò: «Alla prima touche, su suggerimento del mio allenatore, gli piazzai una gomitata sulla spalla e vinsi la rimessa: lui si limitò a lanciarmi un’occhiataccia e io pensai di poter proseguire così. Alla seconda touche, stessa storia, e lui: ‘Non farlo più, amico’. Alla terza ci riprovai ancora e mi risvegliai mezz’ora dopo, sdraiato a bordo campo».

ERA UN ALTRO RUGBY, meno fair e sicuramente più brutale di quello che si pratica oggi. Ma era il gioco che gli All Blacks e gli Springboks praticavano allora, fondato sulla forza fisica, e dove i colpi proibiti si sprecavano da una parte e dall’altra.

Colin Meads conosceva il mestiere della mischia – la caverna dove lo sguardo dell’arbitro non arriva – e sapeva ricorrere ai trucchi più sporchi. Se non bastava lo sguardo, passava ai fatti. Una foto di Peter Bush, il più grande fotografo di rugby di sempre, lo immortalò nel 1966 durante un match tra i New Zealand XV e una selezione internazionale: Meads ha afferrato per la casacca un avversario e gli sta per tirare un pugno. Il malcapitato raccontò in seguito: «Come al solito Meads era in posizione di fuorigioco durante una ruck. Feci l’errore di fargli notare che sarebbe stato meglio che stesse dall’altra parte della linea. Un attimo dopo accadde quello che vedete nella foto. A salvarmi fu il fischio dell’arbitro».

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Colin Meads

MALEFATTE. Meads stroncò la carriera di Ken Catchpole, grande mediano di mischia australiano, procurandogli la rottura del ginocchio mentre cercava di «estrarlo» da una ruck sollevandolo per una gamba. E nel 1967 fu il secondo giocatore nella storia degli All Blacks a meritarsi un cartellino rosso durante un test contro la Scozia. Eppure nessuno dei giocatori di allora ne mise mai in discussione la sportività: non erano agnelli e sapevano semplicemente che lui era più duro di loro.

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Colin Meads

Tra un match e l’altro, pecore, pecore e ancora pecore.

Altre foto celebri: Meads che se ne va in giro per la sua fattoria con due montoni sottobraccio, uno per parte. Scriveranno poi che per allenarsi salisse di corsa una collina portandoseli dietro in quel modo, ma è leggenda metropolitana.

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LA FACCIA SCOLPITA, l’occhio azzurro che scandaglia il tuo spessore umano. E quel fisico incredibile: alto, solido come un tronco ma con le spalle non particolarmente larghe. «Vedete, sono i muscoli da contadino! I giocatori allora erano così», commentò con noi Peter Bush durante il vernissage di una sua mostra ad Auckland durante i mondiali del 2011.

Era vero. Le casacche erano larghe e di cotone grezzo, non le tute da supereroi in uso oggi; e i muscoli si facevano in campagna lavorando di fatica anziché con gli attrezzi in palestra. Altri tempi e altro rugby: che malinconia.

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Colin Meads

Con la nazionale Meads smise soltanto nel 1971, dopo il celebre tour dei British and Irish Lions – l’unica serie che i britannici siano riusciti ad aggiudicarsi in terra neozelandese. A 35 anni il «Pino» sentì che la sua carriera era ormai agli sgoccioli. Giocò ancora altre due stagioni con il suo vecchio club di King Country al quale fu fedele per tutta la vita, e una breve esperienza da tecnico chiusa con un licenziamento per avere accettato di guidare una selezione di giocatori, i New Zealand Cavaliers, in tour in Sudafrica negli anni dell’apartheid.

Poi ancora pecore, qualche speech (ma dicono non rendesse granché) e la vecchiaia con la moglie Verna, cinque figli e una bella nidiata di nipoti. Addio, vecchio Colin.