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Coleman Hawkins, il fiato sul jazz

Coleman Hawkins, il fiato sul jazzColeman Hawkins

Nel 1948 esce «Picasso», un brano con dentro un suo assolo di tre minuti al sax, e nient'altro. Fu un evento epocale La storia di pezzo visionario e rivoluzionario, e l’influenza di un artista che ha trasformato il sassofono in uno strumento iconico

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 30 giugno 2018
I musicisti lo chiamavano «Hawk», falco. Oppure «Bean». Che significa fagiolo. Ma non avevano in mente ortaggi di stagione, nel giro dei «cats» del jazz; quando pronunciavano quel nome, c’era il rispetto che si deve a chi viene avvertito come una fonte di autorevolezza.

SOLO BEAN
Bean era l’acrostico di «the best and only», il migliore e l’unico. Come a dire: noi altri possiamo anche provarci, ma lui resta la fonte e scaturigine di buona parte del suono jazzistico di ieri, di oggi, e forse anche di un bello spicchio di quello di domani. Bean era Coleman Hawkins, l’uomo che tiro fuori il suo strumento di invenzione allora relativamente recente (un secolo di vita), dalle secche delle seconde e terze file, nel jazz, per farlo diventare elemento totemico del genere. Prima avevano dominato il clarinetto di Johnny Dodds e di Benny Goodman, le trombe di Louis Armstrong, Bix Beiderbecke e quanti altri nomi vogliate cavare da un pantheon, che, negli anni della maturità di Coleman Hawkins, era già piuttosto affollato. Dopo Bean, il sax diventa iconico. Il profilo sinuoso con l’elegante doppia curva un elemento portante di migliaia di manifesti, loghi, annunci di concerti.
Coleman Hawkins per tutta la sua non breve vita seppe piazzare colpi da maestro, dimostrando tenacia, coraggio, idee, e una non comune forza di resistenza, in un mondo che bruciava carriere e talenti. Ma in particolare, nell’anno in cui in Italia entrava in vigore la Costituzione, il 1948, Coleman Hawkins osò spingersi con il suo strumento dove nessun aveva avuto il coraggio di avventurarsi, in sala d’incisione. Perché i sassofoni non sono strumento armonico: hanno bisogno di un supporto armonico, per librare il loro volo di note. Suonare da soli è possibile, per studio o esercizio di bravura: ma nessuno, prima del 1948, aveva osato registrare un intero disco con il sassofono non accompagnato.
MARCHIO INDELEBILE
Lo fece Bean, e mise un marchio indelebile non solo sulla storia del sassofono jazz, ma su tutte le carriere a venire di moltissimi altri musicisti che da lì attinsero il coraggio dell’espressione in perfetta solitudine, e senza il conforto di qualcuno che ti sostiene con una bella tessitura di accordi. Anthony Braxton, Lester Bowie, Roscoe Mitchell, Sonny Rollins, Wadada Leo Smith, tra gli altri. Il brano, significativamente, Coleman Hawkins lo intitolò Picasso, e ancora una volta abbiamo conferma di quanto le relazioni tra arti visive d’avanguardia e jazz sporto sul futuro avessero un «common ground». Un terreno comune che tornerà a segnare il jazz, e il mondo che attorno al jazz gira: quando, in una data probabilmente destinata a rimanere sconosciuta, in ogni caso tra luglio e agosto del 1948, Coleman Hawkins entrò in studio a Hollywood per registrare Picasso, il suo mentore era Norman Granz, impresario geniale e «radical» che seppe imporre agli Usa razzisti del suo tempo la cosiddetta «clausola anti discriminatoria» per avere un pubblico misto ai concerti da lui organizzati.
IL COLLEZIONISTA
Picasso sarà l’artista che disegnerà il logo dell’etichetta Pablo di Norman Granz, un quarto di secolo dopo il ’48. E l’oggetto di un collezionismo maniacale (assieme ai quadri di Paul Klee) per l’anziano impresario, quando si ritirò a vivere in Svizzera.
Torniamo a Coleman Hawkins: intitolare così i tre minuti e sedici secondi di visionario assolo non accompagnato significava, dunque, voler arrivare a costruire un oggetto sonoro che galleggiasse su un mid tempo tutto suo, sottintendendone molti altri, e criptando, anche, come da buona pratica jazz, frammenti di riferimenti armonici di altri brani. In questo caso, quasi sicuramente, un brano standard che molto peso ebbe per la carriera di Hawkins, Body & Soul, e probabilmente anche ricordi di Prisoner of Love, un brano del 1931 con una matrice armonica assai vicina a quella di Body & Soul).
Coleman Hawkins, pare, volle far credere ai suoi numerosissimi estimatori che Picasso fosse stato frutto di un atto di creatività estemporanea, in studio: ma, seguendo l’insegnamento del grande Schiaffini («l’improvvisazione non si improvvisa») la verità è che il brano omaggio al grande cubista fu oggetto di una preparazione maniacale, nei ricordi di Norman Granz. Prima Bean si chiuse a suonare il pianoforte per una paio d’ore, lavorando dunque sulla polpa armonica da cui cavare la sequenza apparentemente libera di frasi di Picasso. Poi per altre due ore provò col sax tenore, con la sua sonorità monumentale e decisa. Alla fine decise che non se ne faceva nulla, perché il risultato che voleva non era arrivato. Seguì un’altra defatigante session di incisione, in altra data, altre quattro ore di ricerca e di suono, sulla tastiera e sulle chiavi del sax. Alla fine venne fuori Picasso, il brano capostipite di tutti i brani «solo», per lo stupore del mondo del jazz tutto. Quasi un seguito astratto e cubista del formidabile Body & Soul che Bean incise al suo ritorno negli States dal lungo soggiorno in Europa, tra il ’34 e il ’39, che merita un accenno tutto suo. Bean quando tornò a New York si trovò in un ambiente che non conosceva, quello dello swing trionfante. Preferiva andare a bazzicare nei locali della 52° Strada dove i ragazzotti giovani e un po’ frustrati impiegati nelle orchestrone la sera stavano inventandosi una grammatica e una sintassi nuova, il bebop. The Hawk divenne un nume tutelare. Incoraggiandoli, organizzando session, promuovendo la nuova musica. Che aveva radici anche in quella sua Body & Soul: la incise l’11 ottobre del ’39: buona la prima, e due milioni di copie vendute. Il tema sfiorato, quasi mai esposto, un tuffo a capofitto nelle pieghe dell’armonia sino a un picco emotivo che lascia la musica a galleggiare sul nulla. Di Picasso invece sparirono tutte le matrici alternative purtroppo, anche se, in questi casi, meglio attenersi alla logica del «mai dire mai». C’è un altro piccolo mistero svelato che accompagna il brano per sax senza accompagnamento: in realtà nel 1945, tra febbraio e marzo, a Los Angeles Hawkins aveva inciso due facciate per la Selmer francese di un 78 giri, le Hawk’s Variations, poco più di cinque minuti complessivi su due facciate di sax non accompagnato. Probabilmente un disco «dimostrativo» per sassofonisti, non per il mercato comune: che comunque contribuì a far nascere Picasso.
VITA SPERICOLATA
Nel ’48 Hawkins aveva quarantaquattro anni, un’età ragguardevole per un jazzista dalla vita inevitabilmente spericolata. Eppure con Picasso il falco tornò a «volare alto»come lui stesso volle intitolare un disco del ritorno Usa, e lontano. Aveva iniziato nel 1921 accompagnando Mamie Smith, la cantante di blues cui si deve la prima incisione del genere nella storia, nel 1920.
Nel 1960 lo troviamo in We Insist! Freedom Now Suite, palpitante urlo per i diritti civili con Max Roach, i testi di Oscar Brown Jr, la voce tragica di Abbey Lincoln, la tromba di fiamma di Booker Little e altri giovani schiene dritte della coscienza nera. In copertina, la «provocazione» di un barista bianco che serve i musicisti neri. Il «vecchio» Bean ruggisce, perentorio. Non è stanco, il leone. E torna a ruggire con intensità in un’incisione quasi gemella: Straight Ahead, questa volta a nome di Abbey Lincoln. In studio c’è anche, accanto a Bean, Eric Dolphy, uomo d’oro di Mingus e di Coltrane. Chissà quante volte il sassofonista e flautista che suonava parodiando il canto dei gabbiani aveva fatto passare una puntina di giradischi su quei tre minuti di solitudine per sax solo, Picasso.

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