Colasurdo, battito antico
Marcello Colasurdo, cantatore, è stato il protagonista di una cultura popolare fatta conoscere da Ernesto De Martino, Annabella Rossi, Roberto De Simone, Diego Carpitella, Alain Lomax. Grazie a questi studiosi, al loro lavoro sul campo, anche in termini di creatività (si pensi al grande teatro di De Simone e alla Nuova Compagnia di Canto Popolare), la cultura contadina campana ha «preso coscienza» (letteralmente) della propria identità, del suo valore tecnico, delle possibilità comunicative e sociali implicite nella sua storia.
Colasurdo, anzi «Colasurdo», venuto a mancare il 5 luglio di quest’anno, è stato accompagnato da centinaia di tammorre elevate al cielo; la sua vicenda può essere compresa immergendosi senza riserve in questa marea di cimbali, nei suoi rituali millenari, nei suoi ritmi naturali. Importante, p. es., che a ogni inizio di canto Colasurdo volgesse lo sguardo ad est, infilasse talvolta un bastone nel terreno come axis mundi, «desse la voce», il che non è solo cantare ma consegnare fisicamente qualcosa.
Si tratta, come intuibile, di un sistema espressivo che ha origine negli sciamani mediorientali (Dodds, I greci e l’irrazionale) e che mise radici nel Sud Italia. Dell’ «irrazionalità» (dionisismo, possessione, atteggiamento, postura, vocalizzi) Colasurdo conservava e custodiva tutti gli elementi, in particolare lo stato di trance che ancora oggi è riscontrabile in alcune feste campane come quella della Madonna dell’Arco.
George Lapassade ha osservato a lungo questo fenomeno, tipico del sottoproletariato, e che costituisce una tecnica, appresa con le prime nenie, per superare il dolore, gli stenti, con quel tanto di teatrale che ostenta il soggetto in «crisi di presenza» per stare un po’ al centro dell’attenzione, il che significa «tu esisti, non sei nulla». Parliamo di rituali che hanno come soggetto ed oggetto la Grande Madre, cui Colasurdo era molto devoto, ne coltivava il mistero del sangue che diventa latte, colostro, vaccino e nutrimento.
Della Grande Madre era «sacerdote» durante la candelora, in occasione della salita dei femmenielle al Tempio di Montevergine, dedicato alla «Mamma Schiavone», la madonna nera (forse la Diana di Efeso). Ecco: chi parla di diritti dovrebbe attingere alla cultura dei napoletani, i greculi, ai quali interessa la sacralità della persona, non il genere: «Ce stammo tutte quante, mascule, femmene e femmenielle pecchè ‘a Maronna ca ce vo’ bene ce ha fatto accussì» (cantando a distesa: «Ci siamo tutti, maschi, femmine e femminielli perché la Grande Madre che ci ama ci ha creati così»).
Non è per caso che Monte Vergine è il Mons Vergilii, il Virgilio-partheniàs-verginello, e che la montagna appartenga al complesso montuoso del Partenio.
Ascoltare Colasurdo significava assistere al canto di un rapsodo, fatto di formule mnestiche, inserirsi nell’ «aunàta» del cerchio umano («radunare» ma, anche, «portare all’uno»). Altresì, a un livello un po’ più attento di analisi, le terzine sulla tammorra (la terzina consiste nel battere tre volte di seguito velocemente, le nocche sulla tammorra, e per lungo tempo) sono molto probabilmente un residuo della danza pirrica, la danza del fuoco praticata dai giovani ateniesi per dimostrare, danzando nudi, con lancia e scudo, le abilità guerriere.
Per un cantore il mondo è a forte impronta orale. Se gli chiedete «Albero, martello, sega, accetta. Chi è l’intruso, e perché?» vi risponderà «Il martello, perché non serve per tagliare l’albero»; una mente alfabetizzata avrebbe risposto «l’albero, perché non è un attrezzo». L’arte per un cantore deve servire a qualcosa: lodare gli antenati, come un griot, trasmettere conoscenze e modelli di comportamento (Omero era considerato un’enciclopedia proprio per questo), consentire di superare,mediante l’incantamento, dissonanze esistenziali quotidiane.
Nato e morto poverissimo, Marcello abitava a Pomigliano d’Arco e la sua casa, ultrapopolare, era sempre aperta perché il Maestro era abituato a vivere fin dall’infanzia nei cortili, addestrato ed allevato da «zie», matriache collettive.
Pomigliano d’Arco è stato un territorio lacerato e lo è ancora: la comunità contadina, che viveva secondo natura, fu sconvolta dall’industrializzazione e, poi, dalla dismissione. Colasurdo, con il «Gruppo Operaio ‘E Zezi» era sempre in avanscoperta, instancabile, capace di cantare e suonare per ventiquattro ore di fila per motivare i compagni. Ma non erano presenti solo gli operai dell’Alfa Sud o di altre aziende: l’ «aunata» comprendeva i paria del Tigri e dell’Eufrate, gli schiavi del Nilo, i bambini fucilati, i Rom e gli arsi sui roghi, i dispersi nel fiume Sebeto morti di peste e colera, tutti benedetti ed evocati dalla sua possente voce.
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