«Film autobiografico? «Vagamente sì. C’è qualcosa nel movimento tra il mondo rurale di Martino e la città tutta da scoprire. L’attrazione verso il mondo dell’intelletto, la filosofia, l’arte. C’è in lui la stessa mia problematica adolescenziale: qual è il mio posto? Su, verso il pensiero, o giù, con la terra? Ero molto diviso anche sulla sessualità. Ho rappresentato quel preciso momento in cui ho scelto quale sentiero seguire». Cosimo Terlizzi, classe 1973, un dire che si insinua esplorativo nella fotografia e nella videoarte, nella performance, la scultura e il cinema, ci parla di Dei, suo primo lungometraggio di finzione, dal 21 giugno in sala distribuito da Europictures e prodotto dalla Buena Onda di Valeria Golino, Riccardo Scamarcio e Viola Prestieri, in collaborazione con Rai Cinema. Un ragazzo che, dalla campagna, cerca se stesso e l’altrove in una città, Bari. Pochi chilometri a separare un ulivo splendido e inutile e un attico per le illusioni. Pochi chilometri tra una famiglia che non lo può comprendere e un gruppo di giovani musicisti e universitari che lo accoglie come fratello minore. Pochi tratti fra il giorno e la notte, il sogno e la realtà. Un film sospeso e tenue, doloroso e dolce.

Ricordi, Cosimo, il momento esatto, la prima immagine che hai avuto e pensato di «Dei»?

Sì. Ero in auto con Riccardo Scamarcio, lui alla guida. A un certo punto mi ha chiesto: «Se dovessi fare un film prodotto da me, come lo inizieresti?». Io ho avuto subito questa immagine: quattro adolescenti nella chioma di un grande albero si masturbano, il loro sperma cade come pioggia sulla terra… Lui mi ha guardato e ha ripetuto la domanda. Quella è stata la prima immagine di Dei, mai realizzata.

In «Folder» scrivevi al musicista Christian Rainer, tuo stretto collaboratore, che ogni volta che si crede di raggiungere la verità, questa poi si sposta… Recentemente hai definito «Dei» una «prova di forza». C’è un legame tra la verità e questa prova di forza?

Diciamo che, nel realizzare il film, ti rendi conto che catturare la vita, la verità dei gesti, i profumi, la necessità del momento, è una dura impresa. Noti che questa vita, una volta che piazzi gli strumenti del cinema, è lì per volar via dall’obiettivo; era lì, devi sperare che si ripresenti. La verità è che siamo bravi noi artisti a illudere la vita attraverso le opere. Tutto il lavoro svolto sul set è stato per me come cercare di assecondare una bestia in gabbia. La struttura e i tempi del lavoro sono la gabbia, probabilmente necessaria per osservare la bestia. Poi ti rendi conto che quella bestia è la vita e vorresti, a un certo punto, liberarla dai mezzi che la immortalano e apprezzarla nella sua volatilità.

Cosimo Terlizzi, foto di Patrizia Emma Scialpi Toc Center 2018

A proposito di bestie e di vita: «Dei» riporta, in qualche modo, al tuo «La benedizione degli animali»: è come se «Dei» fosse un salto indietro nel tempo, a un conflitto, a un’adolescenza, a un prima della benedizione. E con la natura, gli animali, hai un rapporto particolare, credo…

Ho lasciato la mia terra a 19 anni. Ho detto addio a qualcosa che amavo molto, a cui ero davvero legato. La terra nel senso proprio della terra, la terra intorno al cortile, che per me era il mondo. Poi c’erano gli animali della fattoria, nei loro ambienti di cemento, che osservavo con profonda pena. La lotta dei contadini con la terra. C’era un dramma di cui non volevo essere complice. Come potevo salvarla almeno dentro di me? A distanza di vent’anni ho maturato quell’incontro in La benedizione degli animali: sono tornato a toccarla attraverso i loro corpi e versi. Oggi vivo in campagna e realizzo ogni giorno quell’incontro.

E la benedizione degli Dei? Quanta, o meglio, quale deità c’è in questi personaggi, e quali sono invece le tue divinità, la tua Grecia, l’Olimpo?

Ho cercato di rendere quel fascino che esercitavano in me quei ragazzi e ragazze più grandi e dalla personalità attraente. Li percepivo come inarrivabili e avrei fatto di tutto per entrare nelle loro grazie. Non avevo ancora il linguaggio giusto per poter comunicare con loro, non ero formato. Ma c’era qualcosa in me che passava in loro, una comprensione. Gli dei che Martino istintivamente segue sono quelli che, come le lucciole, lo attraggono, ma probabilmente dentro di sé sa che quella è solo una fase di passaggio per capire meglio le sue radici e scoprire, forse, che gli dei sono sempre stati lì, dove li ha lasciati: in un luogo molto famigliare. La deità per me è in tutto ciò che ci circonda; meno tra noi umani, più intorno a noi, dove spesso si posano distrattamente i nostri occhi.

E cosa c’è nello spazio tra l’ego del tuo «L’uomo doppio» e questi dei?

C’è che ho scoperto che l’ego è come la componente fondamentale della materia, e quindi la deità è questa esplosione egoica visibile ma sfuggente, diffusa in tutte le cose.

Non è forse casuale, allora, che «Dei», ambientato nel nostro presente, sembri provenire da un altro tempo, un altro sentimento.

È una malinconia. Tutto scorre come deve scorrere, ma c’è una tragedia interna. Seguiamo il percorso di formazione di un ragazzo, sembra leggero, ma la natura viene smossa e, alla fine, il dramma è del mondo che lo circonda. Qualcosa che è più grande di Martino. Arriva nei sogni che appaiono incomprensibili. Stordito da se stesso, s’incammina verso un destino ancora poco chiaro.

Come hai scelto Luigi Catani, che interpreta Martino, e il resto del cast (Andrea Arcangeli, Angela Curri, Martina Catalfamo, Fausto Morciano…)?

Mentre scrivevo la sceneggiatura (con l’aiuto di Jean Elia) ho immaginato le caratteristiche dei personaggi, una sintesi di tanti miei cari amici e amori. Ho realizzato dei collage tagliando dalle riviste quei volti che si avvicinavano ai miei protagonisti. Durante il casting, poi, ho cercato quei valori ed è stato emozionante scoprire che quei soggetti esistevano davvero.

Non era, tra l’altro, la prima volta che lavoravi con Golino e Scamarcio.

Prima di realizzare questo film, Riccardo e Valeria mi hanno aiutato nella post-produzione de L’uomo doppio. Un passo per me importante prima di arrivare a fare un film per l’industria.

La scena che chiude, o forse no, il film…

È un’illuminazione. Ecco cosa ha portato la mia scelta. Ero innocente prima, ora non lo sono più. La scelta è probabilmente il passo verso il mondo di chi ha colpe, visualizzo la forma drammatica della mia scelta. Cosa si lascia per emanciparsi?

Dei e umanità, ma c’è anche un ulivo secolare che ha un ruolo centrale nel film. Come vivi il dramma Xylella?

Osservo i miei alberi e li vedo lottare da sempre contro ogni patogeno. In effetti siamo noi ad averli messi in fila, la nostra in Puglia è un’infinita piantagione. Da almeno trent’anni la maggior parte dei proprietari avvelena la terra per una prassi, che fa sì che erba e insetti non si sviluppino. Probabile che sia questa progressiva mancanza di biodiversità a indebolire alcuni alberi. Oggi c’è questo problema, in futuro verrà un altro. Io non utilizzo pesticidi e sto inserendo tra gli ulivi altre piante utili.

E continuerai con il cinema di finzione? Stai lavorando su altro?

Sono in fase di montaggio di un’opera che è consecutiva a La benedizione degli animali e a L’uomo doppio. Il mio prossimo film di finzione invece è rivoluzionario: senza sceneggiatura.