Cultura

Coercizioni automatiche

Coercizioni automaticheUn’installazione di Chiharu Shiota

TEMPI PRESENTI Estratto da «Che cos’è il potere» (Nottetempo), del filosofo sudcoreano da domani in libreria. L’anatomia offertaci da Foucault offre un’attenta disanima del concetto e delle sue applicazioni. Pena o punizione? Dal simbolismo del sangue alla normalizzazione del Codice. Non si punta al ripristino del soggetto di diritto, bensì a «formare un soggetto d’obbedienza», mediante una «correzione della condotta»

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 6 novembre 2019

In Sorvegliare e punire, Foucault parla di «tre tecnologie di potere». Esse si lasciano descrivere in base alla loro efficacia semantica. Foucault inizia col potere di sovranità: in quanto potere della spada, esso s’irradia dall’alto verso il basso e quando si manifesta in maniera massiccia assume le forme di una vendetta o di una battaglia, di un trionfo. Il criminale è un nemico da sconfiggere. In questo senso, esso ha un grado di diversificazione e intermediazione scarso, poiché la sua lingua è limitata al semplice simbolismo del sangue: «Società di sangue – stavo per dire ‘sanguineità’: onore della guerra o paura delle carestie, trionfo della morte, sovrano con la spada, boia e supplizi, il potere parla attraverso il sangue: questo è una realtà con funzione simbolica». Il sangue significa. Anche il corpo del martire ha un’efficacia segnica. È un «marchio», un «monumento» che significa. Il potere del sovrano parla attraverso il corpo fatto a pezzi o le cicatrici che il martirio lascia sul corpo. Esso «traccia intorno, o, meglio, sul corpo stesso del condannato dei segni che non devono cancellarsi». E la tortura e il martirio si compiono come un rito, come una messinscena che opera con segni e simboli.

La seconda tecnologia del potere, il potere del codice civile, si serve di un proprio sistema di segni: abbiamo a che fare con «lo spirito, invece, o piuttosto un gioco di rappresentazioni e di segni circolanti, con discrezione ma con necessità ed evidenza, nello spirito di tutti». Il potere sortisce un effetto facendo circolare i segni e le idee. Qui non si adopera la spada, bensì lo stilo generato dalla legge. In tal modo il potere non si esprime con una violenza che si impone, bensì con «necessità ed evidenza». Intende sortire effetti non col terrore ma con la ragione. Lo stilo mette il potere su un terreno più stabile rispetto alla spada (…)

QUESTO POTERE è più stabile di quello sovrano, poiché non si esercita dall’esterno, ma dall’interno, cioè senza una costrizione esterna. Fa sì che libertà e sottomissione coincidano. Il potere dello stilo, o dello spirito, non si esprime in maniera irruente. Deve la propria silenziosa efficacia alle idee morali o al rispetto della legge. Lo spirito non conta sulla violenza grezza, bensì sull’intermediazione. In questo caso il potere non sembra imprevedibile, irregolare o irruente come quello della spada, bensì continuo, in quanto forma un continuum di idee e rappresentazioni che penetra nella società. Il potere dello spirito è quello della legge, che viene fatto circolare come un «sistema significante» e si aggiorna senza sosta mediante una «pena visibile, pena loquace, che dice tutto, che spiega, si giustifica, convince: cartelli, berretti, affissi, manifesti, simboli, testi letti o stampati, tutto ripete instancabilmente il Codice». Vengono impiegati cartelli, affissi, simboli e testi per una «ricodificazione rituale» che viene messa in circolazione dal potere alla «festa foranea del Codice». La punizione non mette più in scena il potere del sovrano. È piuttosto una «lezione» che serve all’aggiornamento del sistema di significanti. Il potere, che si presenta alla fiera del codice civile ricco di parole e segni, che s’inscrive nella giovane memoria grazie ai racconti per bambini, conta sulla mediazione – al contrario del potere sovrano, che agisce repentino e non mediato.

Ma lo spazio del potere non si riempie di senso solo a cominciare dall’epoca del codice civile. Già l’ingresso medievale del re mediante il quale l’esercito, da cui scaturisce il potere, viene confermato in chiave rituale, era una festa segnica capace di far apparire il potere carico di senso. Il potere esercita efficacia sull’apparenza di ciò che è carico di senso. Al contrario di questo rinnovamento simbolico dell’alleanza tra poteri, la foucaultiana «festa dei martiri» col suo «arsenale degli orrori» è assai carente di senso e mediazione. Ma nonostante la diversa struttura mediatrice, entrambe le forme di potere creano un continuum.
Il potere disciplinare come terza tecnologia va più a fondo, all’interno del soggetto, rispetto alle ferite o alle idee. Penetra per così dire nel corpo, vi lascia delle «tracce» e in tal modo produce degli automatismi dell’abitudine. Deve funzionare discreto e sottile come il potere del codice civile, ma in maniera più diretta, cioè senza passare dai concetti. Il potere disciplinare si fonda sui riflessi piuttosto che sulle riflessioni. Foucault riconduce la nascita della prigione a questo potere disciplinare. Qui non si punta al ripristino del soggetto di diritto, bensì a «formare un soggetto d’obbedienza», mediante una «correzione della condotta attraverso il pieno impiego del tempo, l’acquisizione di abitudini, le costrizioni del corpo», un’«ortopedia concertata», una «codificazione che suddivide in rigidi settori il tempo, lo spazio, i movimenti». Visto che installa automatismi dell’abitudine esso può, secondo Foucault, «abbandonare del tutto la sontuosità». Si presenta come quotidianità.

IL POTERE DISCIPLINARE ha un linguaggio diversificato. Preferisce diventare carne e sangue invece di ferire. Opera con le norme o la normalità invece che con la spada. Foucault assegna al potere disciplinare anche una positività, una produttività. Esso forma e struttura il corpo, fa emergere nuovi movimenti, nuovi gesti e atteggiamenti indirizzati a un determinato scopo. Fa di una «pasta informe» una «macchina»: «Lentamente, una costrizione calcolata percorre ogni parte del corpo, se ne impadronisce, dà forma all’insieme, lo rende perpetuamente disponibile, e si prolunga silenziosamente nell’automatismo delle abitudini». Alla luce del suo effetto plasmante, ogni critica del potere sarebbe astratta se prescrivesse una totale liberazione del corpo dal rapporto di potere. Malgrado le costrizioni legate al potere disciplinare, da esso si sprigiona un’efficacia produttiva. Foucault presuppone una correlazione segreta tra il corpo plasmabile e utilizzabile sul piano tecnico-politico e l’homme-machine di La Mettrie su quello anatomico-metafisico. La fede nella «disponibilità all’apprendimento» forma il relais che collega il corpo analizzabile a quello manipolabile. Il potere disciplinare non produce solo corpi sottomessi, arrendevoli, pronti a imparare, ma intrattiene relazioni con la produzione discorsiva. Fa quindi emergere un sapere.

COSÍ l’homme-machine comunica, come discorso anatomico-metafisico, col potere disciplinare. (…). Non esiste quindi rapporto di potere che non costituisca un campo di conoscenza. E non esiste conoscenza del tutto libera da rapporti di potere. Foucault osserva come nel caso del potere disciplinare non ci si trovi dinanzi alla «lingua del corpo» o a «segni», bensì solamente all’«economia, l’efficacia dei movimenti, la loro organizzazione interna». Il potere disciplinare non si lascia tuttavia limitare a questi effetti di natura economica, poiché esso non solo elabora il corpo, ma lo descrive. S’impossessa del corpo inscrivendolo in una rete di significato. Le «tracce» che il potere disciplinare lascia sul corpo sono sempre cariche di significato. Esse abitano la sua anima. Al contrario della violenza, il potere funziona mediante il senso e l’eloquenza. Persino nella sua forma violenta, il suo effetto, cioè la ferita, è un segno che significa.

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FOCUS

Byung-Chul Han, un «militante» che attinge alla lezione francese

In questo Che cos’è il potere? (Nottetempo, pp. 174, euro 17, traduzione di Simone Buttazzi), Byung-Chul Han si misura con due concezioni del potere che si contendono (siamo alla metà degli anni Ottanta) la scena pubblica. La prima viene dalla pubblicazione dei materiali dei seminari alla Sorbona di Michel Foucault a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. Il potere, secondo il filosofo francese, è tanto più cogente quanto più non viene esercitato con la violenza, bensì fatto proprio come vincolo e limite al proprio agire, dai singoli al punto da plasmare sia le loro condotte che le loro strategie di resistenza al potere stesso. L’altra concezione attiene invece alla teoria dell’agire comunicativo di Jurgen Habermas, in base al quale il potere viene esercitato solo nelle strategie comunicative e ha una funzione ordinatrice di un ordine del discorso che punta a costituire momenti di consenso, ridimensionando ogni forma di conflitto. Byung-Chul Han si muove sempre sul confine delle due concezioni, anche se ritiene il Foucault della biopolitica molto più adeguato nella rappresentazione delle forme contemporanee di «governo della vita». Di origine coreana, vive studia e lavora in Germania ed è ritenuto uno degli eredi teorici di una scuola di pensiero che ha miscelato la teoria critica di Francoforte con la critica alla tecnica di Martin Heidegger. Ne è emersa una filosofia della contemporaneità che ha avuto il pregio di confrontarsi con la Rete, i mutamenti intervenuti nel vivere sociale dentro l’universo mediatico. Allo stesso tempo, Byung-Chul Han ha messo a fuoco i fenomeni di «colonizzazione» operati dalle forme di governo e di governamentalità del capitalismo. Di Byun-Chul Han vanno sicuramente ricordati i saggi: La società della stanchezza, La società della trasparenza, Nello sciame. Psicopolitica, tutti pubblicati da Nottempo. (Benedetto Vecchi)

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